Cannes 2004 - Due o tre cose sul Palmares

Sono due (o tre), forse, gli insegnamenti che, in sede di consuntivo finale, si possono da trarre dal Concorso della maggiore manifestazione cinematografica mondiale, la 57° edizione del Festival di Cannes, una competizione non certo memorabile, anche solo in confronto a l’anno scorso, la quale, da una parte, ha esibito un discreto livello medio dei film al riparo da capitomboli disastrosi ma che, dall’altra, è stata anche scevra, purtroppo, da grandi momenti d’esaltazione filmica. Insomma il trionfo di un’aurea mediocritas. Parlavamo di due insegnamenti, entrambi, probabilmente scontati, che si ritrovano, al di là dei compromessi inevitabili o dei giudizi di gusto, nel sottotesto delle decisioni della Giuria guidata dall’”apolitico” (ma alla fine poi non tanto) Quentin Tarantino. 1) A dispetto dei troppi fautori cinefili della pura fiction spettacolare, la vita entra necessariamente sempre a far parte del Cinema e quest’anno, poi, ciò è avvenuto dalla porta principale del Palais du Cinéma. D’altro era impossibile non aspettarsi che la disastrosa situazione politica internazionale con il corollario della guerra in Iraq non facesse da prepotente protagonista sugli schermi della Croisette. La Palma d’Oro a Michael Moore (ribadito dal premio Fipresci della critica internazionale) per il suo attesissimo e vigoroso pamphet antiBush, Fahrenheit 9/11, oltre a costituire una (tarda) rivincita di Lumière su Méliès, segnala un diffuso trend, ormai invalso negli ultimi tempi, verso l’aspetto più “realistico” e documentario della cosiddetta settima arte. La non-fiction (o docu-fiction che dir si voglia) sembra insomma catturare, meglio di tante altre forme tradizionali, lo Zeitgeist di inizio terzo millennio, con le sue paure, ansie e nevrosi. E tutto ciò nel contesto ormai avviato della rivoluzione digitale, che con le tecnologie leggere ed economiche, il suo uso&abuso di una “nervosa” macchina a mano introdotta da “Dogma ‘95” e il moltiplicarsi di forme di spettacolo spurie, sta creando una nuova estetica, bella o brutta che sia, molto diversa da quella di solo dieci anni fa. Dicono le cronache che era dal lontano 1956, dai tempi, immediatamente pre nouvelle vague, de Il mondo del silenzio di Cousteau a cui diede un notevole contributo il giovane Louis Malle, che un documentario non vinceva il massimo riconoscimento di Cannes. Ciò ci suggerisce un paragone forse azzardato e una speranza vana. Così come la nascita del “cinéma-vérité” o “direct cinema” alla fine degli anni Cinquanta ha accompagnato e introdotto il passaggio dal classicismo al Moderno, l’ingresso nell’epoca flamboyant dei “nuovi cinema”, ci piacerebbe pensare che la vittoria di Michael Moore, per altro non con il suo film migliore, segnali l’imminenza di una diversa era del cinema a venire. Ma così siamo andati troppo avanti - torniamo, invece, con i piedi per terra per una seconda, ancora più scontata, considerazione. 2) Il cinema dell’Estremo oriente continua la sua positiva onda lunga, calamitando di Festival in Festival l’interesse cinefilo e fornendo una serie di opere ad alto livello artistico-spettacolare. Da Old Boy del coreano Park Chan-Wook (Gran Prix) a Tropical Malady del tailandese Apichatpong Weerasethakul (Premio Speciale della Giuria), dalle Palma come migliore attrice a Maggie Cheung per Clean del francese Olivier Assayas (un mix già vincente sulla carta!) a quella della migliore interpretazione maschile al quattordicenne Yuuya Yagira per Nobody Knows del giapponese Kore-Eda Hirokazu, il vento dell’est ha soffiato impetuoso, pur se la Giuria ha “dimenticato” nel Palmares uno dei miglior film e più attesi film del Concorso, 2046, lo straordinario, toccante esercizio formale di Wong Kar-Wai sui temi già toccati da In the Mood for Love. 3) Per il resto, infine, in un Concorso, come si diceva, senza particolari brividi di bellezza, trai paesi della vecchia Europa, la Francia è quella che ha conseguito il migliore piazzamento. Fuori dai giochi Le Conseguenze dell’amore di Paolo Sorrentino, il gitano-francese-algerino Tony Gatlif si è aggiudicato per Exils la Palma della regia (mah?!) mentre il premio per la migliore sceneggiatura è toccato a Agnès Jaoui e Jean-Pierre Bacri per Comme une Image diretto dalla stessa Jaoui. Se si aggiunge l’indiretto riconoscimento all’ultima, notevole fatica di Olivier Assayas, il bottino dei padroni di casa non è stato, al dunque, per niente deficitario né del tutto immeritato.
