Captivity

Jennifer è sola in una stanza buia e sconosciuta. Da un monitor osserva lo scorrere di immagini che parlano di sé. Una serie di sinistri rumori le ricordano che in quei momenti è prigioniera di un oscuro rapitore, vittima impotente delle proprie paure, schiava di quelle fobie che, da libera, la rendevano odiosa e ridicola agli occhi della gente. Impossibile fuggire da un labirinto che diviene ben presto luogo di atroci torture fisiche e psicologiche, ma è evidente, fin dall’inizio del racconto, che quella condizione è il riflesso dell’anima della protagonista, la rappresentazione simbolica del sostrato labile e ancestrale del suo universo. Gary è un altro prigioniero che Jennifer incontrerà, non prima di esser stata seviziata all’interno di una gabbia di vetro riempita da una sabbia soffice e implacabile. Sarà lui ad immolarsi per la sua vita? ‘Cos’è reale?’ chiede con ansia la giovane modella al coraggioso compagno di sventura; ‘Tutto ciò che puoi toccare’, risponde fiero e sprezzante ‘l’angelico’ ragazzo.
Il thriller orrorifico di Roland Joffè vorrebbe indagare, con la consapevolezza di non esser stato il primo a farlo, sulla mostruosità che può nascondersi sotto l’apparenza delle cose visibili dai contorni ingannevoli, ammalianti e rassicuranti: Jennifer ha tutto, è bella, ricca, famosa, un’icona del mondo contemporaneo; Gary sembra un uomo dall’alto spessore morale. Apparenze, queste, destinate a cambiare a metà film senza una precisa evoluzione psicologica (cosa comprensibile in un film di genere). Il regista vuole raccontare i luoghi dell’oscurità dell’anima, che il cinema traduce negli spazi angusti di un edificio arrugginito e abbandonato, in cui è sempre notte, dove gli ambienti sono illuminati quasi esclusivamente dagli schermi dei monitor e dalle lampade delle torture del sadico carnefice, dove i suoni e i rumori vengono amplificati e la passione si consuma nel terrore e nello scherzo beffardo del destino…
Attenta, energica ed accurata la regia dell’autore di Mission, ma è impossibile non sottolineare i limiti di un soggetto poco originale, con un colpo di scena prevedibile che esautora una tensione narrativa creata soprattutto dall’abile direzione delle scene più forti e sanguinolente.
In America ha suscitato aspre polemiche una delle locandine di lancio del film, che rappresentava la ragazza ferita e imprigionata dalla montagna di sabbia: l’immagine è stata immediatamente paragonata alle torture inflitte da alcuni soldati americani ai prigionieri iracheni durante la guerra; un accostamento forse non troppo fantasioso, ma Captivity è un prodotto industriale a tutti gli effetti, perfettamente in linea con altri film della stessa confezione. Nessun particolare segno d’autore, nessuna pretesa rivoluzionaria. Inutile soffermarsi su sterili polemiche quando oltre a mancare certificabili intenzioni, sono i film stessi a non poter provocare dibattiti e illazioni.
(Captivity); Regia: Roland Joffe; sceneggiatura: Larry Cohen; montaggio: Richard Nord; fotografia: Daniel C. Pearl; musica: Marco Beltrami; interpreti:Elisha Cuthbert (Jennifer Tree), Daniel Gillie (Gary), Michael Harney ( Detective Bettinger), Pruitt Taylor Vince (Ben Dexter); produzione: Captivity Productions LLC, Foresight, RAMCO; distribuzione: Filmauro; origine: USA/Russia, 2007; durata: 85’; webinfo: Sito italiano
