Cemento armato

Cemento armato ha, sotto molti punti di vista, tre padri.
Tre sono, infatti, gli autori della sceneggiatura scritta, a quanto si dice, in contemporanea con il libro che esce ora insieme al suo gemello in celluloide secondo una formula spacciata oggi per nuova, ma collaudata a suo tempo da Wenders e Handke per La paura del portiere prima del calcio di rigore (mica due nomi e mica un titolo qualsiasi!). Di questi padri due sono esordienti quasi assoluti (Marco Martani - autore, con Dazieri, anche del libro e già sceneggiatore di altri film, ma qui anche regista - e Luca Poldelmengo che di suo ci ha messo per intero, e tutto solo, il soggetto), mentre uno è una giovane vecchia volpe che di solito punta dritta al botteghino, ma si ammanta di precise intenzioni d’autore: Fausto Brizzi, fresco fresco da Notte prima degli esami ieri ed oggi.
Ed è proprio dai due capitoli di questa Comedie humaine sui maturandi che vengono anche i tre volti da locandina che lanciano il film: Giorgio Faletti, Carolina Crescentini e Nicolas Vaporidis. Potremo dire di loro che sono i tre padrini della pellicola, che ce la mettono tutta a rendere credibile il film, ma che incespicano nel fatto che Faletti non perde la sua abitudine a declamare per frasi staccate (il che funziona per un professore di liceo carogna, molto meno per una carogna e basta) che Vaporidis, per quanti sforzi faccia con la sua barba incolta, sembra sempre un troppo bravo ragazzo per farci credere in un presente da teppistello di periferia e che la Crescentini sta certo meglio coi capelli scuri… ma poi ogni considerazione si ferma qui. Bravi attori in ruoli che non sono davvero per loro, che suonano bene, ma sempre "fuori parte" come il Ninetto Davoli che deve improvvisarsi nel carattere di un traffichino dal cuore d’oro caduto nella rete di circostanze più grandi di lui, ma che sembra uscire da un altro film.
Il grosso del problema di Cemento armato è che non esiste una reale, grossa tradizione di noir all’italiana cui appoggiarsi. E per fare gli apripista occorrono spalle più larghe e fiato meno corto. Certo c’erano i poliziotteschi degli anni ’70 (un altro padre), le Torino armate e le Milano violente, le Roma a ferro e fuoco e le Napoli malavitose e tentacolari, ma quelle erano opere che pescavano a piene mani dalle paure degli anni di piombo, dall’ambiguità di un’epoca violenta che faceva saltare l’immagine rassicurante di un’Italia sana per mostrare il cancro di un malessere sociale profondo. A Cemento armato manca questo contesto forte. Nella migliore delle ipotesi l’aggancio all’attualità è dato dai piromani che si divertivano ad incendiare le auto per strada e che, nel film compaiono come pagine in cronaca da telegiornali. Poi c’è poco altro.
C’è l’idea di una gioventù incapace a trovare reali occupazioni lavorative (è il caso del protagonista), c’è l’idea di una corruzione strisciante nei palazzi della giustizia (è il poliziotto infingardo e malevolo), ma tutto resta nell’astratto, nel chiuso di una proiezione che, alla fine, si vuole del tutto estranea al contingente ed al contemporaneo. Il mondo vero resta fuori dal film, sfocato, incerto, inagganciabile ed incomprensibile. E così il testo fa poco male al suo pubblico, avvera una formula qualunquistica (che è anche quella ormai vincente nella commedia all’italiana che ha smesso da tempo di graffiare) in cui anche se tutto finisce in tragedia c’è poco di che rattristarsi perché tanto tutto “è solo un film”. Insomma, se dobbiamo davvero pensare che uno degli elementi distintivi di un noir sia la sua capacità di “perturbare”, la sua intrinseca abilità a togliere al proprio pubblico ogni certezza rassicurante, allora dobbiamo concludere che Cemento armato tutto è fuorché un noir.
Prende, forse, in prestito qua e là qualche regola da thriller (un secondo padre). Soprattutto nella costruzione a suspence, che certo piacerà al pubblico dei più giovani, di certe scene (il cattivo che entra in casa della madre mentre il figlio corre, il dettaglio dell’accendino del malefico Sayd sembrano omaggi rubati a De Palma che a sua volta rubava da Hitchcock), ma non resta abbastanza nel solco del genere per arrivare a definirsi tale.
E’, infine, ossessionato dall’idea di un incrocio di destini, sullo sfondo d’una Roma fatta tutta di cemento, disperata ed anonima, cupa e spenta dove tutto torna nei conti di un fato che tira le fila, ma non taglia mai a casaccio e in cui tutti sono obbligati a reincontarsi: i padri coi figli, i violentatori coi teppisti, i criminali coi poliziotti. Un nucleo quasi da tragedia greca (il terzo ed ultimo padre) che fa sentire quanto Pasolini fosse invocato come nume tutelare (anche per la presenza di Ninetto Davoli nel cast) per un film che, però, aveva tutta l’intenzione di flirtare con generi di impianto più spettacolare e meno autoriale.
Da tutti questi padri viene fuori un figlio un po’ irreggimentato, un po’ troppo ansioso di far bene i suoi compiti per casa. Ancora troppo bambino per arrivare a fare davvero i conti con il mondo vero. Un po’ come il Samuele del film: il personaggio purtroppo più sprecato nello script. Sicché finisce per eccedere nelle cure. Si inventa una città, l’eterna urbe, che è un incrocio di vicoli e di traffici, ma che suona falsa come la Garbatella ridotta al ruolo di Bronx italiano. Punta verso metafore ardite, ma tocca solo stereotipi abbastanza odiosi. E la sua disperazione senza sbocchi è così cercata a tavolino da suonare fredda.
Il film così, diventa un po’ come Vaporidis: un borghese quasi pariolino che si veste da proletario e va in periferia in cerca di emozioni forti. Un gioco che piaceva tanto all’aristocrazia.
Prima della Rivoluzione francese.
(Cemento armato); Regia: Marco Martani; sceneggiatura: Fausto Brizzi, Marco Martani, Luca Poldelmengo; fotografia: Marcello Montarsi; montaggio: Luciana Pandolfelli; musica: Paolo Buonvino; interpreti: Giorgio Faletti (Il Primario), Nicolas Vaporidis (Diego), Carolina Crescentini (Asia), Dario Cassini (Silvio), Matteo Urzia (Samuele), Ninetto Davoli (Pompo), Paolo Bernardini (Puccio), Alfredo Pea (il capitano); produzione: Fulvio e Federica Lucisano - Italian International Film - Rai Cinema; distribuzione: 01 distribution; origine: Italia, 2007; durata: 102’
