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Cinema italiano ed omosessualità

Pubblicato il 24 marzo 2009 da Leonardo Gliatta


Cinema italiano ed omosessualità

Il tema dell’omosessualità nel cinema italiano si è da sempre configurato come un fenomeno di costume e, forse, non c’è strumento migliore dello schermo cinematografico per registrarne i mutamenti culturali nella nostra società. Molti critici accreditano il primo ruolo velatamente omosex del cinema italiano allo Spagnolo di Ossessione (1942) di L. Visconti, l’uomo che stringe amicizia con Massimo Girotti e potrebbe (ma non ci riesce) evitargli il vortice di perdizione in cui lo precipiterà Clara Calamai. Una figura inserita ex novo nella sceneggiatura, tratta dal romanzo Il postino suona sempre due volte di James Cain, fortemente voluta dal regista milanese che, da quel momento, oltre ad introdurre i canoni estetici del neorealismo, tenterà di dare visibilità ad un mondo complesso fino ad allora inesplorato. Lo farà a modo suo, scegliendo il genere del melodramma per esteriorizzare rapporti edipici (La caduta degli dei), vincoli di sangue come lotte di sopraffazione (Rocco e i suoi fratelli), fino a capolavori decadenti come Morte a Venezia e Ludwig, in cui l’omosessualità è ancora ammantata di mistero, associata all’eccesso, all’ottocentesco concetto di “sregolamento dei sensi”, perdizione. Pulsione di morte, quindi. Schermo velato, quindi, come recita il titolo di un fortunato saggio di Vito Russo, perché non si poteva parlare di omosessualità liberamente, e si doveva ricorrere a mascheramenti consci o inconsci all’interno dei film, negli interstizi delle immagini, e solo se il discorso filmico era sostenuto dallo spessore intellettuale di un Visconti si potevano aggirare i divieti e le censure. Vita difficile ebbe anche il primo Pasolini regista, nonostante le sue accese prese di posizione sui concetti di sessualità. Sono i primi anni Settanta, anche l’Italia assapora il polline della libertà proveniente da oltreoceano. Così grazie al carisma del poeta e al coraggio di produttori indipendenti vedono la luce Il Decameron (1971), I racconti di Canterbury (1972) e Il fiore delle mille e una notte (1974), che passano alla storia del cinema come la trilogia della vita, in cui il sesso in tutte le sue forme è rappresentato come energia creativa, elemento vitale.

Mentre nel resto del mondo si assiste ad un proliferare di pellicole a tema omosessuale, in particolare il giovane cinema arrabbiato inglese con titoli come Festa per il compleanno del caro amico Harold (1970), Domenica maledetta domenica (1971) e Sebastiane (1976), qui da noi si osa poco e male (vedi Ernesto di Samperi, anno 1979), e l’omosessuale quando compare è sempre relegato a ruoli da invertito simpatico ma condannato ad una marginalità eterna.

Tognazzi ne Il Vizietto (1978) crea lo stereotipo dell’effeminato in chiave comica che tanta parte avrà in tutto il cinema degli anni Ottanta e Novanta, e fino alla metà degli anni Novanta il nostro cinema pare non essere neppure sfiorato da problematiche come l’Aids, la prostituzione, la transessualità. Forse come reazione alla piaga dell’Aids che mieteva vittime di anno in anno più numerose, la comunità gay statunitense promosse proprio nei primi anni Novanta una battaglia per la riconoscibilità dell’identità LGBT in pellicole che fossero lontane dall’edulcorante patina hollywoodiana. Così fu coniato l’appellativo di New Queer Cinema per tutte quelle produzioni, a basso costo, d’avanguardia, che riempivano i cartelloni dei festival come il Sundance o Berlino, e che avevano come nuovi maestri riconosciuti Almodovar, Fassbinder, Gus Van Sant, Gregg Araki, Todd Haynes. Il regista italiano che ha dato uno scossone e la patente di ufficialità al cinema gay nostrano è un turco: Ferzan Ozpetek. Quasi che per guardare con occhio moderno al mondo omo italiano ci fosse bisogno di una giusta distanza. Dal primo al penultimo film, Ozpetek mostra uno spaccato di un’Italia multietnica, intergenerazionale e allargata che assomiglia tanto al come dovrebbe essere, più che a come è. L’omosessuale esce dal suo ghetto intriso di sensi di colpa per reintegrarsi nel tessuto sociale, attorno alla tavola de Le Fate Ignoranti (2001) si ricompongono tutti i contrasti e le nuove famiglie si formano accanto a quelle vecchie. Un cineasta fuori dagli schemi come Davide Ferrario firma nel 1998 Figli di Annibale, una commedia on the road memorabile per il bacio tra Abatantuono e il poliziotto Flavio Insinna: uno sdoganamento nazionalpopolare, potremmo dire. Il New Queer Cinema dal 2000 in poi troverà strada anche nelle nostre produzioni, a fatica e rocambolescamente, come per film troppo “piccoli” come Cover Boy (Carmine Amoroso, 2006) e Un altro pianeta (Stefano Tummolini, 2008), oppure nella docufiction Improvvisamente l’inverno scorso (Gustav Hofer-Luca Ragazzi, 2008), un’inchiesta sui Dico che ha girato i festival di tutto il mondo, svolta da una coppia di giovanissimi registi.

Il grande cinema di casa nostra, quello della politica di autori internazionali come Bertolucci e Amelio, non affronta mai di petto l’argomento; non è un cinema autoevidente, ma le dinamiche dei rapporti tra i personaggi tradiscono un’omosessualità latente, sublimata. Bertolucci, dagli inizi della sua carriera, si è sempre inoltrato nei territori ambigui della psicanalisi e della sessualità, contribuendo a spingere un po’ oltre l’asticella del pudore. Anche nel kolossal storico Novecento (1976), raccontando le due anime dell’Italia di inizio secolo attravero il dualismo tra Padrone (De Niro/Alfredo) e Contadino (Depardieu/Olmo), rende esplicito il legame omoerotico dei due protagonisti nella sequenza in cui sono a letto con la prostituta epilettica, dove la giovanissima Stefania Casini tenta di procurare un’erezione a Depardieu utilizzando la mano di De Niro. Triangoli sessuali come rivoluzionari antidoti all’asfissia della coppia sono riproposti molti anni più tardi dal regista parmigiano in The Dreamers (2002), a suggerire quasi uno scambio perfetto, un equilibrio utopicamente naturale delle passioni, come se solo in tre si possa distribuire al meglio la carica erotica di giovani idealisti che volevano cambiare il mondo. Proprio sul set di Novecento, Gianni Amelio gira il documentario Bertolucci secondo il cinema. Già regista affermato, Amelio sviluppa una sua poetica di un personalissimo impianto drammaturgico fondato sul rapporto sempre irrisolto padre – figlio, cinema esclusivamente maschile, dove tutti o quasi i protagonisti del suo cinema cercano la figura paterna, da Il piccolo Archimede (1979) a Colpire al cuore (1982), da I ragazzi di via Panisperna (1987) a Il ladro di bambini (1992), fino a Così ridevano (1998) e Le chiavi di casa (2004). Nella sua opera più difficile e meritatamente premiata col Leone d’oro a Venezia, Così ridevano, indaga con profonda sensibilità l’attaccamento morboso, al limite dell’incesto, tra due fratelli del sud emigrati a Torino.

Un film che più di ogni altro coglie nel segno non tanto la condizione di omosessuale quanto le sue pulsioni erotiche, la natura stessa del suo desiderio è L’imbalsamatore, di Matteo Garrone (2002). Storia per certi versi fassbinderiana del desiderio bloccato, dell’amore che ha paura a dire il suo nome; è un film metafora della relazione umana, la volontà di imbalsamare per sempre il corpo dell’amato per tenerlo per sè ed escluderlo dal resto del mondo. Metafora della relazione umana e di quella omosessuale in particolare, la reificazione dell’oggetto d’amore, scarnificato nell’anima ma integro nel corpo, è l’ossessione del protagonista, il nano tassidermista che affonda le mani nelle interiora delle sue prede, le svuota, le pulisce e poi le ricompone ad imitazione della vita.


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