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Colpevole di omicidio

Pubblicato il 20 marzo 2003 da Alessandro Izzi


Colpevole di omicidio

Storia generazionale di quelle che il cinema hollywoodiano sforna con incredibile e colpevole pertinacia, Colpevole di omicidio potrebbe facilmente essere archiviato come un’ennesima prova fallita di Robert De Niro. Il film, insomma, sembra essere una triste conferma di come quello che resta uno dei più talentuosi attori americani in circolazione, sembri aver avviato una sequela inarrestabile di scelte sbagliate, di film che, già sulla carta, rivelano la loro sostanziale improponibilità e vuota insulsaggine. Forse queste scelte sbagliate nascondono, in realtà, una magnificazione egoica (forte del suo innato talento, De Niro potrebbe voler sempre confermare a se stesso e ai suoi fans di essere capace, da solo, di risollevare le sorti delle peggiori sceneggiature), forse esse nascondono solo il bisogno del divo di essere sempre sulla scena e che, stante la sostanziale carenza di buone proposte, lo obbliga a ripiegare su opere di pura routine, o forse, dipendono esclusivamente dal desiderio di mettersi costantemente alla prova, di esplorare nuovi territori; fatto sta che, alla fine, il rischio che si avvera è quello di dilapidare un patrimonio attoriale e di sfilacciare un’immagine divistica che aveva già consegnato ai posteri ben altri titoli e capolavori senza tempo. Le generazioni raccontate nella pellicola, cui facevamo cenno all’inizio, sono, comunque, ben tre secondo una propensione al racconto dinastico di vaste dimensioni e di grandi ambizioni psicologiche che tanta fortuna ha avuto in certo cinema di genere. La prima, quella del nonno è quella di un infanticida morto sulla sedia elettrica per l’uccisione di un bambino rapito in un tentativo di rapimento con riscatto. L’ombra della sua colpa naturalmente si proietta secondo il modello simil dostoevskiano più deteriore sulla prole innocente come un vero e proprio marchio di Caino. La generazione dei padri è invece esemplificata dalla figura di Vincent LaMarca (De Niro), che quasi adottato da quei detectives che avevano assicurato il genitore alla giustizia, è diventato un detective lui stesso, un poliziotto amato e tenuto in grande considerazione da tutti i suoi colleghi e cresciuto nel sogno utopico della legalità ma, al fondo, traumatizzato dallo spettro della morte del padre. Tutto sommato la sua vocazione all’ordine e al bisogno di facili certezze può essere letto, secondo una ben misera propensione psicologica, come il desiderio di ribaltare l’esempio paterno nel terrore, costantemente sentito, di poterne un giorno seguire le tracce sulla via dell’illegalità e della morte. Proprio questo incubo costante porta Vincent ad abbandonare la moglie e il figlio ancora piccolo. Quest’ultimo, Joey (James Franco) trascorre la sua adolescenza reagendo a sua volta al modello paterno, finendo per ricalcare, inconsapevolmente, le orme del nonno fino a che non viene, addirittura coinvolto nell’omicidio di un trafficante di droga e poi di quello di un poliziotto, compagno del padre (un possibile trasfert?). Ci fermiamo qui, prima di finire a descrivere i possibili traumi del pronipote, rimarcando come questo spaccato maschile della società americana (Frances McDormand, moglie di De Niro resta personaggio dolente, ma marginale) è meno impietoso di quanto non appaia a prima vista. Anche se, infatti, a tutta prima si ha l’impressione di trovarsi di fronte ad una precisa riflessione sul significato della figura paterna in un mondo sempre più orientato verso la dissoluzione dell’istituzione familiare, ben presto la bolsa retorica americana stinge il tutto in un recupero sostanziale del significato di quella stessa istituzione. Con malcelata facile melassa hollywoodiana, alla fine la situazione si ribalta e Vincent, consapevole finalmente del suo fallimento come padre, percepisce, nello specchio doloroso degli errori del figlio (che gli rimandano intatta l’immagine dei suoi stessi errori), il senso delle sue colpe e si sacrifica per lui riabilitandosi ai suoi occhi. Salvata una gerarchia di valori perfettamente verticale, la famiglia (sempre più importante del singolo componente) può, allora cessare la sua azione circolare e centripeta, palesata nella ripetizione costante dei suoi stessi errori, ed orientare di nuovo la propria bussola verso un futuro lineare ed avventuroso (tutto affidato alle mani di Joey). E mentre James Franco guarda con rinnovata fiducia verso il suo orizzonte pensando che domani è un altro giorno a noi poveri spettatori non resta che pensare che abbiamo mal speso i soldi del biglietto. A parte la bravura indiscutibile degli interpreti non resta nulla di questa palese esercitazione di facile retorica. E pensando a Scorsese e a Goodfellas guardiamo con rimpianto questo De Niro, lui sì davvero colpevole di omicidio. La vittima è il suo stesso talento.

(City by the sea); regia: Michael Caton-Jones; sceneggiatura: Ken Hixon; fotografia: Karl Walter Lindenlaub; montaggio: Jim Clark; musica: John Murphy; interpreti: Frances McDormand, Robert De Niro, James Franco, Eliza Dushku, William Forsythe; produzione: Matt Baer, Elie Samaha, Andrew Stevens; origine: USA, 2002; distribuzione: Eagle Pictures

[marzo 2003]

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