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Come tu mi vuoi

Pubblicato il 10 novembre 2007 da Alessandro Izzi


Come tu mi vuoi

“Come tu mi vuoi”. Per Pirandello questo è quello che ci dice sempre la Verità quando, fatalmente, la interroghiamo. Una risposta beffarda e tragica che ci mette di fronte all’impossibilità di definire il mondo che ci circonda e, soprattutto, di definire noi stessi.
La protagonista dell’opera pirandelliana è, come quasi tutti i personaggi dello scrittore siciliano, un vero e proprio “corpo senza nome”. Incarna, all’inizio, un mero oggetto del desiderio sessuale di due loschi individui della Berlino più trasgressiva, poi accetta, per amore, di “indossare” un’identità, di assumere un ruolo in quella continua recita che è lo stare con gli altri.
Ma chi è davvero questa ignota figura femminile? Dietro ogni suo atteggiamento, dietro ogni sua scelta, dietro ogni suo modo di essere c’è sempre un’altra maschera. La sua Verità è stratificata come quella di una cipolla. Ed è così che la Natura strindberghianamente ci prende in giro: la sfogliamo in cerca di un’essenza, di un nucleo, di un “qualcosa”, ma quello che abbiamo tra le mani è sempre solo un altro strato di illusione. Che ci fa piangere per di più.
A noi resta, alla fine, la scelta: accettare di vivere nell’ignoranza, smettendo di cercare e accontentandoci dell’ultimo strato di cipolla che è più o meno “come noi lo vogliamo” oppure continuare a scavare nella consapevolezza che la cosa non ci porta da nessuna parte.
Anche nei nostri rapporti con gli altri viviamo questo terribile paradosso. Per desiderio d’amore siamo pronti, spesso, a farci ad immagine del “desiderio” dell’altro, ad indossare la maschera delle sue richieste. Ma nel far questo, alla fine, non siamo più noi. E allora chi sta amando davvero l’oggetto del nostro desiderio? Noi o la maschera che abbiamo indossato? E se la risposta è davvero la seconda come possiamo davvero sentirci appagati da un amore che non è indirizzato a noi, ma alla nostra recita?
Tutto questo comporta che la dicotomia tra “essere” ed “apparire” (dicotomia con cui si riempiono la bocca i talk show televisivi e quest’ultimo film con la Capotondi e Vaporidis che da quei programmi discende direttamente pur fingendo di criticarli) è pura illusione. L’essere in realtà non esiste. Esiste, forse, solo il gioco delle maschere. E proprio qui sta lo snodo della tragedia del nostro essere al mondo.
Sicché l’intero nocciolo del film, in realtà, poggia su un sostanziale fraintendimento. Tra la dorata, ma vuota realtà della “società bene” parolina che spende 1500 euro per un vestito e l’ostinata dimensione di ricerca e di studio della protagonista femminile che mette su il maglione infeltrito della nonna, non c’è reale differenza. Entrambe sono maschere che funzionano nella recita sociale, ma non indicano un’essenza. Non sono modi di essere, ma modi di indossare dei ruoli.
Il regista di questo filmettino nato sulla scia di Notte prima degli esami (stessi interpreti imberbi) e in copia carbone di Il diavolo veste Prada (in almeno un paio di scene il debito è dichiarato, ma non saldato) dice, a parole, di voler star fuori dal gioco (scegliere un titolo pirandelliano così fondamentale è, volenti o nolenti, una dichiarazione d’intenti), ma poi casca nell’esemplificazione di matrice televisiva.
E la televisione, che segna appunto il trionfo delle apparenze e le sistematizza nel consesso sociale trasformandole in modelli, non è, né può essere capace, di guardare al vuoto che c’è sotto l’ultima maschera. Al contrario essa è obbligata a fermarsi un passo prima dicendo chiaramente a se stessa: “Qui deve esserci, alla fine, la Verità!”
Per questo il finale di Come tu mi vuoi è all’insegna del trionfo del messaggio. E nel confronto tra la maschera da viveur Vaporidis (abbastanza pessima l’interpretazione) e quella da intellettuale della Capotondi (affrontata con lo stereotipo della befana un po’ ingobbita con le braccia chiuse sul petto a far da scudo) la Verità deve stare più o meno nel mezzo. Anche perché proprio lì in mezzo, proprio tra i corpi degli attori, ci sta prima il sesso (e si sa che una scopata fa sempre buttare alle ortiche qualsiasi remora) e poi l’intoccabilità tutta televisiva dei sentimenti (quelli sì sempre veri e concreti, altro che le maschere pirandelliane). A vincere, alla fine è, quindi, la genuinità, dell’acqua e sapone; la sincerità che si oppone al mondo annoiato delle sole vacue apparenze e delle donne oggetto.
Il messaggio si stempera poi nella logica mielosa voluta dal target di pubblico cui il film si rivolge (ragazzine sotto i quindici anni) per cui va bene l’acqua e sapone, ma un filo di trucco non guasta e stare tanto sui libri è buona cosa purché non ci si dimentichi che fuori il sole splende.
Il confronto tra la cultura dei libri e quella della "Cool tura" del manifesto che sovrasta la città universitaria di La Sapienza (come a dire che anche l’Istruzione ormai ha preso quella direzione) è, quindi, solo apparente. E di fronte ad una società che sempre più predilige la seconda (e del resto lo stesso vecchio prof. carogna si prende la Capotondi come assistente solo dopo che lei è passata dallo stadio di dolce brutto anatroccolo a quello di freddo cigno calcolatore) la risposta è sempre quella del rifugio nei sani sentimenti e di una coppia che si chiude a riccio rispetto ad una realtà sociale che sa di non poter cambiare. La risposta, appunto, che piace tanto alle ragazzine che guardano i talk show e leggono Cioè.


CAST & CREDITS

(Come tu mi vuoi); Regia: Volfango De Biasi; sceneggiatura: Volfango De Biasi, Alessandra Magnaghi; fotografia: Giovanni Canevari; montaggio: Stefano Chierchiè; musica: Michele Braga; interpreti: Cristiana Capotondi (Giada), Nicolas Vaporidis (Riccardo), Giulia Steigerwalt (Fiamma), Niccolò Senni (Loris), Luigi Diberti (Giuseppe), Marco Foschi (Hermes), Roberto Di Palma (Peppe), Paola Carleo (Alessia), Paola Roberti (Katia), Elisa Di Eusanio (Sara); produzione: Ideacinema, Medusa Film; distribuzione: Medusa; origine: Italia, 2007; durata: 95’


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