X

Su questo sito utilizziamo cookie tecnici e, previo tuo consenso, cookie di profilazione, nostri e di terze parti, per proporti pubblicit‡ in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di pi˘ o prestare il consenso solo ad alcuni utilizzi clicca qui. Chiudendo questo banner, invece, presti il consenso allíuso di tutti i cookie



Conan the Barbarian

Pubblicato il 26 agosto 2011 da Marco Di Cesare


Conan the Barbarian

Una trentina d’anni è trascorsa dalle fatiche patite da due autori (inizialmente Oliver Stone come sceneggiatore; successivamente John Milius come regista, oltreche realizzatore di un ulteriore script) affinchè Hollywood, tramite Dino De Laurentiis, potesse issare un nuovo re, Arnold Schwarzenegger, sul proprio trono; e molti di più ne sono passati da quando Robert E. Howard cominciò a scrivere le gesta del barbaro Conan. In mezzo una messe tra romanzi, racconti, fumetti e opere televisive, oltre a un secondo film: una dimostrazione di forza e di dirompente supremazia da parte dell’eroe simbolo di un mondo primordiale e primitivo, precedente a qualsiasi volontà di civilizzazione e di civiltà. Un essere forse non così semplice da comprendere, Conan, dietro la sua aura di estrema popolarità.
«Quello che non ci uccide, ci rende più forti»: in questo modo si apriva la pellicola di Milius, con una citazione presa da Friedrich W. Nietzsche. Ciò assai prima che Marcus Nispel aggiungesse la sua di firma in calce all’ennesimo remake nell’odierna epoca del mainstream senza idee. Giacché il Conan del 2011, lì dove cerca di moltiplicare le sensazioni audiovisive rispetto al film del 1982, non fa altro che togliere e sminuire il portato generale della pellicola e del mondo che lo ha preceduto, in un procedimento che si può ritrovare in molti dei rifacimenti di questi ultimi anni, più che altro capaci di svilire e rendere inerte la materia di partenza. Laddove il Conan di Milius manteneva un respiro epico e un gusto per l’inquadratura che veniva esaltato nei momenti ricchi di pochi dialoghi, per una visione che come in un western si appropriava del tempo dell’attesa - nell’attesa del Tempo - riuscendo ad attrarre a sé sia lo spazio mitico che un altro più intimo, in un’armonia giocata tra primi piani e campi lunghi e bagnata nello stesso sangue che da sempre irrora la vita, la guerra, la morte.
Invece Nispel ha preferito intraprendere una strada totalmente diversa: atteggiamento, questo, di certo non esecrabile a priori, ma i cui risultati, tuttavia, alla fine risultano essere del tutto fallimentari. Per nulla aiutato dallo script (del quale sembra non abbia vergato alcuna riga), il regista tedesco non ha trovato di meglio che giocare con la mdp, come a tentare di riempire un vuoto evidente, ma in un modo talmente rozzo che niente ha da spartire con una eventualmente già più apprezzabile brutalità. Se i primi venti minuti di proiezione scorrono portando con sé prospettive anche interessanti nella loro grossolana violenza di forma e contenuto, presto la programmaticità dell’operazione, la sua ripetitività diviene stancante e per nulla divertente, mostrando dietro di sé quella carenza di idee di cui si parlava inizialmente. Anche la facile tematica del passato che ritorna viene presa come pretesto per indicare l’unica meta che interessa ai realizzatori, ossia la vendetta da parte del protagonista, scelta questa che, invece che tratteggiare una strada percorribile anche da menti un minimo raffinate, rende tutto ancora più povero, poiché non riesce – e non vuole – astrarsi in un discorso più ampio, non riuscendo neanche ad arricchirsi di quell’immediato piacere che può essere dettato da un ’qui e ora’ fatto di pura fruizione spettacolare, a causa della ridondanza e dello scarso equilibrio tra le parti.
Tutto ciò per colpa anche di un cast non all’altezza, se si eccettuano Ron Perlman - la cui magnifica e amabile faccia sparisce fin troppo presto - e Rose McGowan, antagonista nei panni della strega Marique: la performance di quest’ultima è ammiccante e ironica, una villain ben più interessante che il Khalar Zym di Stephen Lang (suo padre nella finzione scenica), la cui recitazione è stata fin troppa affettata, convenzionale e poco incisiva. In questo modo ha perso di peso anche il rapporto di relazione tra i cattivi, un aspetto più intimo che sarebbe potutto essere un piccolo sostegno all’inutilmente roboante e da più parti traballante pellicola di Marcus Nispel.


CAST & CREDITS

(id.); Regia: Marcus Nispel; sceneggiatura: Thomas Dean Donnelly, Joshua Oppenheimer e Sean Hood (basata sul personaggio Conan creato da Robert E. Howard); fotografia: Thomas Kloss; montaggio: Ken Blackwell; musica: Tyler Bates; interpreti: Jason Momoa (Conan), Rachel Nichols (Tamara), Stephen Lang (Khalar Zym), Rose McGowan (Marique), Saïd Taghmaoui (Ela-Shan), Ron Perlman (Corin), Leo Howard (Conan da bambino); produzione: Millennium Films, NU Image Films, Paradox Entertainment; distribuzione: 01 Distribution; origine: USA, 2011; durata: 105’; web info: sito ufficiale.


Enregistrer au format PDF