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Conversazione con Alexandre Rockwell - Roma 2010 - Extra

Pubblicato il 6 novembre 2010 da Lorenzo Vincenti


Conversazione con Alexandre Rockwell - Roma 2010 - Extra

Uno dei protagonisti assoluti di questa quinta edizione del Festival internazionale del film di Roma è stato sicuramente Alexandre Rockwell, il regista indipendente per eccellenza che giovedì sera davanti ad una sala gremita ha avuto l’occasione di mettersi a nudo e parlare approfonditamente del proprio cinema. Da In the soup a Pete Smalls is dead (il lavoro ultimo che ha presentato qui a Roma), Rockwell ha affrontato molti temi e ha intrattenuto i presenti con la sua invidiabile energia e la sua travolgente simpatia. Dopo una breve introduzione in cui il regista ha descritto sè stesso e le sue origini artistiche, le domande dei due moderatori sono entrate in profondità. Con l’intento di delineare i contorni straordinari del rivoluzionario artista newyorkese

Clip 1 (In the soup)

- Ad un certo punto avevi bisogno di soldi e per vendere tutte le tue sceneggiature hai fatto conoscenza con uno spacciatore!

All’epoca ho venduto tutto quello che avevo perché per me era difficilissimo trovare i soldi necessari per fare un film. Ero un po’ come Adolpho di In the soup. Ho comprato un sassofono perché pensavo di diventare un grande musicista jazz. Ma mi sbagliavo. Ho fatto un sacco di rumore e alla fine l’ho venduto. Andai in albergo per incontrare il compratore e, come nel film, non aveva la camicia. Sul letto c’era una ragazza che ballava nuda. Mi ha dato i soldi e così ho cominciato la mia carriera da regista.

- La cosa che mi colpisce sempre molto è il fatto che tu identifichi il mestiere dei produttori con i gangster. Anche nell’ultimo c’è una sorta di gangster story legata al cinema. Li vedi così? Io penso in realtà a Cassavetes, penso al fatto che il suo Allibratore cinese in realtà è la metafora di un indipendente che si ritrova contro il sistema hollywoodiano e poi perisce.

E’ vero. Il mio film preferito è Morte di un allibratore cinese e John è stato non solo un amico ma anche il mio mentore. Era un uomo generosissimo. Io ero nulla, scrivevo delle letterine illeggibili e lui rideva. Diceva che Morte di un allibratore cinese era per lui una storia molto personale. Ed è vero.

I miei produttori preferiti sono sempre dei gangster perché le banche sono dei freddi assassini e a me gli assassini non piacciono. Preferisco vivere. I gangster invece sono un po’ deboli in quanto hanno questo desiderio di immortalità. Forse sono un romantico, non amo la violenza, non amo la brutalità, non amo ovviamente la criminalità. A meno che non sia perpetrata contro una banca. Comunque i gangster sono affascinanti perché non riescono a raggiungere l’immortalità e di conseguenza, spesso, sono attirati dagli artisti. Questo gangster aveva un fratello che mi ha più volte minacciato di morte. Mi telefonava nel bel mezzo della notte per chiedermi “Dov’è il film?”. Io dicevo: “Non posso mostrarlo”. Lui mi faceva: “Hai rubato i soldi? Fammi vedere il film. Che c’hai fatto con i soldi?. E io dicevo: “Guarda che ci sto lavorando sul film”. Lui mi minacciava di morte e poi mi chiamava suo fratello Joe per dirmi: “ Lascia perdere mio fratello, E’ un pazzo!”. Il fratello era un killer ma l’altro era simpatico. E io gli ero simpatico. Continuo a mandargli dei libri in galera. E’ diventato una specie di genio nel frattempo. Non è uno scherzo. Gli mando libri di John Fante e altri autori.

- Ritengo molto interessante l’idea che un autore, quando fa dei film indipendenti, possa usare anche il linguaggio del cinema per trasformare qualcosa di drammatico in qualcosa che può far ridere tutti noi. Non credi che questo faccia un po’ parte dell’idea del cinema?

Sì, adesso devo fare la persona seria. La primissima volta io pensavo a questo film come ad una tragedia. Non mi ero reso conto di aver fatto un film così divertente. Pensavo, anzi, che non sarebbe piaciuto perché era troppo tragico. Una volta sono andato a cena proprio con un gangster e lui mi parlava così (mima il gesto della mano davanti al volto per indicare la posizione frontale del suo interlocutore). Aveva una ragazza molto bella. Lei, ad un certo punto, ha messo la mano sotto il tavolo e ha iniziato ad accarezzarmi la gamba. Lui mi guardava e mi diceva: “Perché sudi?” e il fratello mi guardava mentre lei teneva la mano sulla mia gamba. Loro dicevano: “Andiamo a sniffare un po’ di coca, divertiamoci!” mentre io ero terrorizzato. Volevo morire. E’ divertente ma non lo è poi tanto, tutto sommato. Quindi quando faccio un film francamente non mi rendo mai conto di renderlo divertente.

- Però poi in In the soup, i due gangster che vogliono l’affitto da Steve Buscemi somigliano a Chico Marx!

Sì. E’ curioso che tu abbia detto una cosa del genere perché questo è un ottimo esempio. Non so se c’è qualcuno che abbia visto In the soup tra di voi – non è che voglia promuovere il film (scherza ancora il regista). Io avevo un proprietario di casa a New York che, siccome non potevo pagare l’affitto, mi diceva: “Un cieco può fare il regista di un film?”. Io gli dicevo: “Ma perché mi fai questa domanda!”. Volevo mettere una figura del genere in un mio film perché mi aveva terrorizzato all’epoca. Ho trovato i miei due amici, questi italoamericani straordinari. Avrebbero fatto qualunque cosa per me. Avrebbero ammazzato qualcuno. Erano dei tipi incredibili e così ho deciso di metterli. Erano dei cantanti nel film. Cantavano in una specie di duetto ed erano tesissimi. Gli ho detto: “Cantate, non recitate le battute”. E così intonavano uno stornello: “bobobohh… paga l’affitto”. Mia madre non riusciva a capire quello che stesse succedendo sul set. Poi hanno cominciato a litigare seriamente tra di loro perché uno cantava a voce troppo alta e l’altro si infastidiva. Ad un certo punto hanno cominciato a colpirsi e io continuavo a girare. Si stavano picchiando di santa ragione. La sera uno dei due mi ha chiamato e mi ha detto: “Hey Alex, io ucciderò Steven. E’ venuta una schifezza” e io gli ho detto: “No guarda è stata molto divertente. Ho guardato i giornalieri”. Loro non mi credevano, non si rendevano conto di quanto potesse essere straordinaria. In riferimento alla domanda precedente si può dire quindi che noi cerchiamo di riunire insieme certi elementi e poi si spera che da questo possa nascere un alchimia.

CLIP 2 (Four rooms, Caro diario, In the soup)

- Gli autori indipendenti raccontano storie molto personali e tendono a stabilire delle relazioni personali con degli attori. Si può dire che questo modo di fare cinema tende anche a stabilire una formula di fraternità tra tutti coloro che in qualche maniera vi partecipano?

Sì, forse perché vengo dalla tradizione di Cassavetes, per cui quando facciamo un film diventiamo come una famiglia. Credo sia molto importante. Queste sono cose che succedono in maniera naturale. Ad esempio io e Nanni Moretti ci siamo incontrati in una giuria e siamo diventati amici. Lui ha ingaggiato Jennifer, quindi eravamo a Roma ci ha invitato a fare una scena nel film Caro diario). Non avevamo idea di quello che sarebbe venuto fuori. Ci aveva detto solo: “Camminate e basta, non guardate nella cinepresa”. E la scena è venuta fuori così.

- Che importanza dai all’attore nel momento in cui giri i tuoi film? Quanto lo lasci libero o quanto riesci a controllarlo?

Nella musica si scrivono delle note e si vuole che i cantanti intonino quelle note. Il dialogo sono le note. Mi piace cercare la situazione che spinge all’improvvisazione. Così come era per il cinema di Cassavetes anche per me non c’è improvvisazione nelle battute, sono le emozioni ad essere improvvisate quando si recita. Le parole sono come la linea della superficie del mare mentre le emozioni sono sotto. Se sopra può rimanere sempre uguale, sotto deve sempre cambiare a seconda delle esigenze.

- I tuoi film danno l’impressione di avere una sceneggiatura in cui la scrittura è molto elaborata. Si ha l’impressione che tu sui dialoghi lavori con molta attenzione.

Mi piace giocare con il dialogo. E’ come la musica. E’ divertente scrivere quando non si può girare un film per mancanza di soldi. Questa è la difficoltà. Capita che devo aspettare tantissimo per girare un film perché sono alla ricerca di soldi, devo continuare a frequentare persone alle quali non voglio nemmeno stringere la mano perché devo pregarli di darmi i soldi. In questi momenti faccio pratica girando i film nella mia mente e quindi mi faccio un film continuamente. Anche adesso ci sono momenti in cui sto pensando al film che sto girando e questa potrebbe essere una scena interessante. Se stessi per morire starei tra voi, magari nudo con la mia vita che gira sullo schermo alle mie spalle. Sarebbe una bella improvvisazione.

- Ascolti musica quando scrivi?

Sì, strano. Paolo Conte ha un’influenza enorme su di me. Non so perché, non capisco niente di ciò che dice ma mi piace molto perché mi sento rivoltare dentro quando lo ascolto. Potrei ridere, vomitare, mi sconvolge veramente. E’ una musica che mi provoca molte sensazioni.

CLIP 3 (Montaggio alternato tra Le notti di Cabiria di Fellini e Somebody to love)

- Un’altra caratteristica piuttosto tipica degli autori indipendenti è una caratteristica di tipo quasi antropologico. In un momento della loro vita, tra infanzia e adolescenza, hanno tutti subito una ustione, una profonda esposizione a dei tipi di cinema che li hanno segnati. Questo ha non solo fatto nascere in loro la voglia di fare cinema ma anche l’opportunità di riproporre nei loro film le emozioni che hanno trovato in quel cinema.

Mi emoziono molto rivedendo queste immagini. Il mio rapporto con Fellini è qualcosa che va aldilà delle parole. Io quando ero ragazzino, all’età di dodici anni, mi ritrovavo in una sala cinematografica a cercare di capire questo linguaggio. Andavo da solo a vedere i film di Fellini. I suoi film hanno avuto un impatto incredibile su di me. Io quando vedo queste immagini vedo oltre, vedo oltre l’immagine di Giulietta. Provo un’emozione diretta, molto personale. Molte volte è come se le vedessi per la prima volta. Devo dire che questo film mi ha ispirato molto e il mio era proprio un omaggio che volevo fare.

- Pete Smalls is dead ricorda molto In the soup come idea cinematografica. Mi diverte molto perché è un film molto anarchico, è un film sopra le righe. Mi chiedo quanto sia possibile fare un film come questo in Italia oggi. Penso a Marco Ferreri e a quanto sarebbe difficile, se ci fosse oggi uno come lui, fare quel tipo di film. Parallelamente ti chiedo come è cambiato il panorama del cinema indipendente americano oggi?

Non dobbiamo essere tristi. Dobbiamo andare avanti. Dobbiamo farli questi film, sapendo che è difficile. Bisogna combattere. Certo in un certo momento storico questi film hanno avuto più consensi. Il mondo oggi si sta tristemente aziendalizzando. Negli Stati Uniti è quasi impossibile fare un film di questo tipo. Però lo facciamo e basta. Combattiamo, troviamo dei gangster che hanno dei soldi e poi mentiamo a questi gangster. Diciamo loro che ci faranno dei soldi e poi puntualmente li facciamo arrabbiare. E’ importante cercare di cambiare le cose. Dovete farlo voi come dobbiamo farlo noi. Forse dovremmo farlo insieme. Essere qui è straordinario, incontrarvi, parlarvi è un’esperienza unica. Le cose sono cambiate da noi e questo è molto triste. La mia generazione di registi conosceva la storia, magari si parlava di un film di Fellini, di John Ford e tutti li conoscevano, rimanevano svegli fino a notte tarda per vedere questi film. Adesso non è più così, si è perso l’amore per la tradizione, per i “leoni”, questi animali selvaggi che mi hanno preceduto. Ormai non ci sono più in natura, sono stati rinchiusi nelle gabbie dello zoo. Ma lo spirito indipendente è come una bestia selvaggia che non può essere rinchiusa in una gabbia. In una gabbia finiremo per fare avanti e indietro. A Roma come a New York o in qualsiasi altra parte. Noi non vogliamo essere intrappolati.

- In questo nuovo film ci sono due o tre scene in cui c’è un grande virtuosismo tecnico. Quasi alla fratelli Coen. E’ come se il tempo che tu hai impiegato per fare questo film lo hai speso per farlo più geometrico, con una regia più visibile.

Io sono un po’ all’antica, sono tradizionalista. Amo il mestiere del cinema e lo insegno alla NYU. Ho sfruttato l’occasione di questo film per fare, in fondo, una lezione di cinema agli alunni che hanno collaborato con me alla realizzazione. Sono stato il loro professore facendo questo film. E’ stato bello lavorare con i miei studenti, è stato un po’ come reinventare il cinema e ci siamo messi alla prova con pochissimi soldi. Ma ormai il film è finito, per me fa parte del passato. Spero che farà parte del vostro futuro.

Alexandre Rockwell scatta la sua foto ricordo del pubblico di Roma e con la stessa allegria con cui si è presentato si allontana tra gli applausi.


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