Pete Smalls is dead - Roma 2010 - Extra
Uno degli eventi finali del Festival di quest’anno è stato dedicato ad uno dei più grandi e suggestivi registi del cinema indipendente americano: Alexandre Rockwell. Per l’occasione l’autore di Boston ha presentato alla platea romana Pete Smalls is dead, l’ultimo suo intenso lavoro dedicato al cinema e alla passione che lo lega alla settima arte. Perché Pete Smalls is dead è innanzi tutto l’omaggio sentito dell’artista nei confronti della sua “ossessione”, è un tassello fondamentale di un mosaico cominciato molti anni fa e che può trovare la sua definizione completa oggi nelle intime rivelazioni di questo personalissimo film di tendenza. Con questa nuova opera Rockwell è come se volesse riprendere il discorso di In the soup e arricchirlo di una infinita serie di componenti. Come le meravigliose citazioni di cui il film si compone, primo segnale di un omaggio ai maestri più disparati dell’arte cinematografica che hanno in un certo senso influenzato varie epoche del cinema e condizionato non poco il metodo di Rockwell, o come l’insita natura di un film che dietro l’evoluzione di una storia intricata, a tratti surreale, nasconde un componimento metacinematografico su cui si distendono una serie di riflessioni più o meno profonde legate al modo di fare cinema. Con questa ultima fatica Rockwell ha voluto realizzare il suo personalissimo 8 e ½ (Fellini tra l’altro è uno dei suoi punti di riferimento), un atto d’amore nei confronti del cinema e in particolare di un certo tipo di cinema, quello che più gli appartiene, quello sporco, indipendente nel senso più estremo che questa parola può esprimere, il cinema provocatorio, il cinema povero dei giovani anni ’80. Il film trasmette la passione di questo autore combattivo e ne esalta le doti di narratore stravagante, perennemente intento a giocare con i meccanismi che ne compongono l’essenza. Salta così da un genere all’altro, passando da una commedia grottesca che ricorda le sfumature ironiche dei fratelli Coen ad un thriller surreale che chiama evidentemente in causa il suo amico Jarmusch (ma anche gli stessi Coen), toccando velocemente le sponde di un roadmovie wendersiano, di un noir atipico, le influenze della cultura pulp e le intense rappresentazioni umane ereditate da John Cassavetes, un maestro dell’indipendenza e dell’anarchia da cui Rockwell discende in maniera naturale. Ma si potrebbe andare avanti per ore in questo gioco e scopriremmo uno dopo l’altro, una infinita varietà di dettagli legati all’arte cinematografica che il regista ha voluto disseminare all’interno del film quasi a voler coinvolgere lo spettatore nel suo personalissimo divertissement. Pete Smalls is dead è uno di quei film che suscita emozioni contrastanti nello spettatore, lo sconvolge, lo spiazza ed è capace al contempo di farlo ridere e commuovere nel volgere di pochi istanti. E’ uno di quei film istintivi, grezzi nel senso positivo del termine. E’ un’opera che comunica con il suo spettatore senza i filtri della costruzione furbesca ma solo con la purezza dei volti umani, maschere disilluse e stralunate apparentemente uscite da un’epoca passata (tutti fratelli minori di Lebowski), e la sincerità di una impostazione narrativa e visiva d’altri tempi. Ci ha potuto lavorare molto sulla sua opera Rockwell e questo si vede nell’eleganza di certe sue sequenze, architettate in maniera quasi perfetta (richiama il virtuosismo tecnico dei Coen ma anche di un Bogdanovich ad esempio) e di una scrittura disarmante, fatta di genialità che si susseguono una dopo l’altra, di follie incredibili, di una alternanza continua tra la tragicità dei sentimenti (e delle situazioni) e l’ilarità di risultati (e delle reazioni) sempre sopra le righe. Nella prima parte, soprattutto, Pete Smalls is dead incanta per la sua perfezione, per un discorso che procede senza intoppi e una sottigliezza della messa in scena che non lascia nulla al caso, salvo poi cedere qualcosa nella seconda parte in cui l’evoluzione della storia rimane a volte impigliata nella rete della ripetitività e della soluzione scontata. Ma quando un film dimostra di possedere quella spensieratezza artistica che le consente di raggiungere la fiducia del pubblico, allora anche i difetti, onesti e inevitabili, divengono più facilmente digeribili. Specie se a farli è un regista a cui piace il rischio e se ne frega dei pericoli possibili quando di fronte ha la possibilità di raccontare, fare, produrre il proprio tipo di cinema.
(Pete Smalls is dead) Regia: Alexandre Rockwell; sceneggiatura: Brandon Cole, Alexandre Rockwell; fotografia: Kai Orion; montaggio: Adolpho Rollo (?), Jarrah Gurrie, Josiah Signor; musiche: Mader; scenografia: Alessandro Marvelli; costumi: Annie Abriel; interpreti: Peter Dinklage, Mark Boone Jr., Steve Buscemi, Tim Roth, Seymour Cassel, Rosie Perez, Michael Lerner; produzione: Ms. Tangerine Productions, MJH Americain; origine: Stati Uniti; durata: 94’.