Corri ragazzo corri

Srulik ha nove anni.
Fugge dal ghetto di Varsavia con solo qualche ricordo nelle tasche ad appesantirgli il cammino.
Gli fanno da guida le ultime parole che gli ha gridato il padre poco prima di lasciarlo in un ultimo gesto di speranza disperata: «Dimentica il tuo nome. Dimenticati di me e di tua madre. D’ora in poi ti chiami Jurek. Fingiti cattolico, ma non dimenticare mai di essere ebreo».
Come in Mr Klein, ma con meno filosofia, come in Europa Europa, ma senza lasciarsi sovraccaricare da vocazioni troppo autoriali, Corri ragazzo corri riflette l’orrore incommensurabile della Shoah nella goccia d’acqua dolente del tema dell’identità.
Fingersi ed essere, sapersi e dimenticare, negare per affermarsi: sono questi gli estremi entro cui si dibatte la coscienza del piccolo protagonista che impara subito il suo nuovo nome, ma ha comunque bisogno di lezioni per capire come recitare quella parte di devoto bimbo cattolico che dovrebbe salvargli la vita.
Il film non si inerpica sui sentieri della psicologia infantile, né si mette in cerca dell’aria fredda del pensiero astratto, ma lascia che il suo Jurek si barcameni tra questi problemi con i pochi strumenti che ha raccolto per strada durante i nove anni della sua piccola vita.
Problemi che sono, però, il basso continuo, ineludibile e insistente, della sua faticosa lotta per la vita. Perché per quanti sforzi faccia per dimenticare il suo essere ebreo, gli restano sempre una circoncisione e il comandamento di suo padre a riempirgli i sogni di paura.
Due tagli, in fondo, il primo fisico, il secondo spirituale, che sono il segno di una cicatrice che definisce un legame che non si può spezzare più.
Perché la sua cultura è il motivo della sua persecuzione e, al tempo stesso, la condizione del suo riuscire a sopravvivere.
Sul lento pulsare di questo tema che scorre lungo tutto il film come un fiume carsico che affiora nelle pieghe della storia quando può, il regista compone una pellicola che ha tutte le caratteristiche di un racconto per ragazzi d’atri tempi.
Srulik/Jurek si perde nei boschi come un bambino delle favole. Trova altri ragazzi ebrei che gli insegnano a cacciare, a rubare le galline ai contadini e a urinare sulle piccole ferite che si è procurato correndo tra i rami per disinfettarle.
L’orrore della storia lo segue da presso, ma la sua infanzia ha gambe più veloci che lo portano, appena possibile, un poco più lontano dagli abissi di paura. Le camere a gas e i forni crematori non li vede neanche da lontano, anche se la loro presenza ossessiona gli occhi dello spettatore in sala che teme per la sorte del piccolo anche se, in fondo, la fine è già nota visto che il racconto prende il largo da una storia vera.
Così la sua odissea incredibile non cede mai all’horror dell’Holocaust film, ma resta nei limiti del terreno affine della fiaba crudele.
Corri ragazzo corri è, incredibile a dirsi, un film d’avventura sullo sfondo della tragedia della Storia. Un inno alla vita che riesce nel miracolo che Benigni aveva mancato con il suo La vita è bella: restare nella favola senza negare l’abominio della Shoah.
Un film che sfugge alle coordinate classiche di tanti film analoghi in cerca, prima di ogni altra cosa, di sprazzi di luce, di motivi di speranza.
In questo modo fili spinati, urla straziate, cani che abbaiano nella notte, treni e corse con i piedi nudi sulla neve (immagini che sono ormai archetipali di quello che è col tempo diventato un vero e proprio genere cinematografico) restano a margine dell’inquadratura, un ossessivo fuori campo che si appella alla nostra memoria collettiva.
Per Corri ragazzo corri, quindi, la Memoria non è la meta del racconto, ma il suo punto di partenza. Non insegna a un pubblico che non sa, ma racconta con la sicurezza di poter parlare a un pubblico che, quando anche non sa, perlomeno crede di sapere.
Un’opera che si rivolge anche e soprattutto ai ragazzi. Classica e avvincente quanto basta.
Un racconto che si apre alla vertigine solo nel finale, quando incontriamo il vero Srulik, sopravvissuto all’orrore, forte di una ritrovata identità.
(Lauf Junge lauf); Regia: Pepe Danquart; sceneggiatura: Heinrich Hadding, Pepe Danquart; fotografia: Daniel Gottschalk; montaggio: Richard Marizy; musica: Stéphane Moucha; interpreti: Andrzej Tkacz, Elisabeth Duda; produzione: Bittersuess Pictures, Ciné-Sud Promotion, A Company Filmproduktionsgesellschaft; distribuzione: Lucky Red; origine: Germania, Francia, 2013; durata: 108’
