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Decameron pie

Pubblicato il 10 settembre 2008 da Alessandro Izzi
VOTO:


Decameron pie

Quando Pasolini si accostò al Boccaccio del Decameron, lo fece cercando le parole del poeta e gli occhi del pittore. Il suo scopo era ritrovare, attraverso la centralità masaccesca che tanta importanza aveva avuto nel suo modo di comporre le immagini, le radici e i valori della letteratura popolare. Soprattutto egli voleva lo scandalo, lo schiaffo in piena faccia a quelle che erano le convenzioni borghesi contro cui aveva speso tutta una vita. E non c’era scandalo migliore di quello dell’esibizione del sesso, della visione diretta, senza infingimenti e senza reticenze, di quello che era l’aspetto che la cultura dominante censurava con maggior energia. Pasolini vedeva, insomma, nel sesso l’ultimo baluardo possibile della popolarità e dei valori del sottoproletariato.
Contro l’omologazione imperante, che tutto assimilava e tutto trasformava in materia da salotto, il sesso rivendicava una sua dimensione di stato di natura. Certo era l’elemento che maggiormente ci riportava alla nostra dimensione più puramente animale, ma proprio per la sua "cattiva" educazione, proprio per il suo essere così drasticamente irrefrenabile e necessario, esso poteva opporsi liberamente al mondo delle convenzioni. Il sesso è impulsivo ed irrazionale. E’ il prodotto degli odori e degli umori. Fatto di chimica e di meccanica dei corpi lo puoi controllare solo sin quando non ti travolge con la sua bramosia egoica. Di fatto segna il trionfo del corpo sullo spirito. Ed è quantomeno significativo che Pasolini si andasse a ricercare questa libera animalità tra le pagine di Boccaccio e nel medioevo dei novellieri e dei pittori. Il grande regista romano cercava l’ultimo elemento antiborghese proprio agli albori della borghesia, proprio nel punto di passaggio tra un’epoca ed un’altra. Quasi a voler dimostrare che la più detestabile delle classi sociali, anche quando era ancora intrisa di valori positivi e propositivi (e tale era la realtà boccacesca dei Comuni e dei commerci che segnava, di fatto, la fine del dominio della Chiesa) aveva sempre dovuto convivere con una realtà "altra", più vera, più sana anche se sempre più schiacciata da censure ed ipocrisie.
L’utopia pasoliniana doveva, però, per forza di cose andare ad urtare contro l’invadente capacità di assimilazione della borghesia. Il Decameron fu un successo e generò i suoi emuli, divenne il prototipo di un genere commerciale. E l’esibizione del sesso divenne una moda sulla quale costruire campioni di botteghino. Fu paradossalmente il punto di partenza dell’estetica televisiva. Pasolini fece appena in tempo ad abiurare un percorso che proseguì senza di lui e tocca il suo punto estremo proprio con Decameron pie (ammiccante traduzione italiana di Virgin territory).
Di Decameron pie si è scritto molto da ben prima che cominciassero le riprese. Ci si chiedeva come potesse un regista come Leland (conosciuto per film del calibro di Vorrei che tu fossi qui) accostarsi ad una materia così estranea alla sua come quella delle pagine di Boccaccio. Si criticarano a priori le scelte di casting perchè non si capiva come fosse possibile che Mischa Barton potesse interpretare il ruolo di una fanciulla fiorentina trecentesca, proprio lei che sembrava già improbabile come ragazza problematica e alcolizzata di Los Angeles (è uno dei quattro nomi di punta delle prime stagioni di The O.C.). Ci si chiedeva come Hayden Christensen potesse lasciare tanto rapidamente i panni del giovane Skywalker votato al lato oscuro per vestire quelli di un testosteronico tiratore di scherma che finisce in un convento di vergini.
Ora che il film è passato sotto i nostri occhi dobbiamo dire che pochi di questi dubbi possono dirsi davvero fugati. L’operazione di Leland di appropriazione del testo boccaccesco, infatti, appare incerta sotto tutti i punti di vista. Il regista sembra inseguire un’affabulazione priva di eccessive preoccupazioni (seguendo in questo la direzione pasoliniana, ma senza averne l’estro registico e la vocazione pittorica) e tutta concentrata solo su ritmo e situazioni. Gli interessano i duelli con le spade e le schermaglie amorose, gioca con il sesso, ma punta anche sul sentimento e sulle situazioni più caste. Nel comporre il suo film non spinge mai l’accelleratore in nessuna direzione precisa, semmai solletica il freno tutte le volte che il pruriginoso potrebbe sfociare nel porno. In effetti, e qui sta anche il senso del titolo italiano, tenta la strada dell’ibridazione del filone goliardico giovanilista che tanto va di moda, con i giochi del film finto storico pensando che basti mettere un po’ di rock per rinnovare l’immaginario dell’opera in costume.
Non chiediamo al film credibilità storica. Non è nelle sue corde, nè nelle sue intenzioni. Si può benissimo ambientare un film nel passato per parlare del presente e sarebbe sciocco pretendere altrimenti. Ma qui anche il presente è stinto, grigio e fuori fuoco. Decameron pie è figlio di un oggi sciocco e disinteressato. La storia non gli interessa e la letteratura neppure, figurarsi poi poesia e pittura. E quel sesso che ancora piaceva a Pasolini si è fatto materia di barzelletta, da guardare dall’alto in basso come uno sfogo momentaneo che tutti ci concediamo prima di tornare all’uso quotidiano. Lo esibiscono anche in televisione, senza che nessuno si scandalizzi più.
E anche se Hayden Christensen alla fine ti risulta simpatico nel ruolo con le reticenze strane che gli dona e la sua bellezza troppo nordica non ti stona più di tanto nel racconto, non riesci a non chiederti che fine abbiano fatto i sorrisi a denti marci di Pasolini, quei volti brutti e sgraziati che sembravano venir dritti dritti dal trecento di Boccaccio. Così non riesci a fare a meno di chiederti "perchè", "che senso ha" per tutta la durata della proiezione e quando tutto finisce non puoi non sospirare con rimpianto, a segno di quanto avesse avuto ragione Pasolini ad abiurare la sua trilogia: ci fosse stato almeno un poco più di sesso...


CAST & CREDITS

(Virgin territory); Regia e sceneggiatura: David Leland; fotografia: Ben Davis; montaggio: Jim Clark; musica: Ilan Eshkeri; interpreti: Hayden Christensen (Lorenzo), Tim Roth (Gerbino), Mischa Barton (Pampinea), Craig Parkinson (Tindaro), Rosalind Halstead (Filomena), Kate Groombridge (Elissa), Christopher Egan (Dioneo), Matthew Rhys (Conte Dzerzhinsky), Anna Galiena (La Badessa), Clive Riche (Minghino); produzione: Dino De Laurentiis Productions; distribuzione: Eagle Pictures; origine: USA, 2005; durata: 97’


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