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Deepwater - Inferno sull’oceano

Pubblicato il 5 ottobre 2016 da Lorenzo Vincenti
VOTO:


Deepwater - Inferno sull'oceano

Era l’aprile del 2010 quando una serie di incidenti sulla piattaforma petrolifera Deepwater Horizon provocarono quello che ancora oggi viene ricordato come uno dei più grandi disastri ambientali della storia dell’umanità. Lo sversamento di petrolio iniziato il 20 aprile di quell’anno, a seguito di malfunzionamenti e anomalie in diversi comparti della struttura al largo delle coste della Louisiana, è proseguito per 87 giorni consecutivi rilasciando nelle profondità del golfo del Messico 50000 barili di greggio, più di 5 milioni di litri che hanno invaso l’oceano fino alla definitiva chiusura del pozzo Macondo avvenuta il 15 luglio successivo. La notizia ebbe una portata globale e per tre mesi consecutivi fu l’argomento principale dei media di tutto il mondo. Si discusse a lungo sull’accaduto, gli interventi degli esperti e le schermaglie politico/giudiziarie fecero da contorno alla reale drammaticità dell’evento soffocando nel clamore mediatico non solo il danno naturalistico inestimabile ma anche la dipartita di undici vite umane.

A partire da una inchiesta giornalistica scritta per il New York Times da David Barstow, David Rohde e Stephanie Saul, concentrata esclusivamente sui fatti di cronaca e sulle testimonianze dirette, prende vita oggi, a distanza di sei anni circa dai tragici avvenimenti, la sceneggiatura scritta da Matthew Michael Carnahan e Matthew Sand per il film di Peter Berg, Deepwater – Inferno sull’Oceano.
Il film come l’inchiesta giornalistica si concentra sulla drammaticità degli attimi dell’incidente ricostruendo un racconto che sia al contempo spettacolare e aderente alla realtà. Trascurando infatti quella informazione speculativa che ha indagato sulle responsabilità con il solo intento di schierarsi da una parte piuttosto che un’altra, il film di Berg predilige interagire con la cronaca per lavorare con essa e su di essa. Secondo la tradizione di una certa parte di cinema catastrofico di cui Peter Berg si è già fatto promotore in passato (con i resoconti di guerra assordanti The Kingdom e Lone Survivor), Deepwater testimonia come la spettacolarizzazione, per il regista newyorkese, possa derivare anche e talvolta più efficacemente, dalla realtà circostante. Che sia la guerra in Iraq, la distruzione della piattaforma petrolifera o l’attentato durante la maratona di Boston (soggetto del prossimo film dello stesso Berg Patriots day) non ha importanza.
Ogni avvenimento legato alla cronaca può farsi spettacolo e assumersi l’onere di informare secondo le regole e i dettami di Hollywood (non siamo forse nell’epoca dell’infotainment?).

Tralasciando i giudizi etici di una operazione a tratti opportunistica la cui maschera indagatrice e di denuncia nasconde astutamente una vena commerciale e una forma glamorous, a volte più cool dei kolossal dichiarati, Deepwater rivela una buona solidità sia a livello narrativo che di messa in scena. I canoni classici entro cui il film si inscrive e i paletti cronachistici dai quali, per volontà, decide di farsi contenere non permettono da una parte di esaltare troppo lo spettatore e dall’altra gli risparmiano quegli eccessi di retorica ai quali film del genere rischiano di pagare un dazio obbligato. Non che non ce ne sia di retorica nel film, come nella tradizione del sodalizio Wahlberg/Berg, ma quanto meno essa si limita ad alcune sporadiche apparizioni. Come nell’epilogo ad esempio, dove la maturazione della tragedia ovvero la riflessione su di essa è sacrificata in favore di una effimera sequenza strappalacrime che nulla aggiunge.
Bella invece nel ritmo e nell’impatto visivo la costruzione della catastrofe. Qui Berg dimostra tutto il proprio valore di orchestratore puntiglioso e capace, nel saper produrre spettacolo e nell’accompagnare il proprio protagonista Wahlberg verso l’esplosione scenica e fisica della sua interpretazione. Oltre al rumore assordante però, allo spettatore non rimane molto altro da sintetizzare del film. Questo si adagia sugli standard del cinema che persegue senza mai esaltarsi troppo. Forse la metafora della piattaforma che viene giù ben si addice ad un’opera ideale nell’intento di “estrarre” soldi dal proprio pubblico ma che non resiste alle pressioni di un cinema passato che dal sottosuolo riemerge con forza per ricordare che in questo campo è già stato detto abbastanza (e che il meglio è già stato fatto o ancora deve arrivare).

Menzione finale per i coprotagonisti, due giovani rampanti del cinema statunitense di nome Kurt Russell e John Malkovich, che non sfigurerebbero nemmeno all’interno di un documentario sulle antilopi, figuriamoci in un film scolastico da un punto di vista recitativo ma in grado di marcare i segni profondi della sofferenza su quei loro volti carichi e profondamente espressivi.


CAST & CREDITS

(Deepwater Horizon) Regia: Peter Berg; sceneggiatura: Matthew Michael Carnahan, Matthew Sand; adattamento: Matthew Sand - Basato su un articolo di David Barstow, David Rohde, Stephanie Saul; fotografia: Enrique Chediak; Effetti speciali: Burt Dalton; montaggio: Gabriel Fleming, Colby Parker Jr.; musiche: Steve Jablonsky; trucco: Howard Berger; interpreti: Mark Wahlberg, Kurt Russell, John Malkovich, Gina Rodríguez, Kate Hudson, Dylan O’Brien; produzione: Lorenzo di Bonaventura, Mark Vahradian, Mark Wahlberg, Stephen Levinson, David Womark; distribuzione: Medusa, Leone Film Group; origine: USA; durata: 97’.


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