Defiance - I giorni del coraggio (Conferenza stampa)

Lunedì 19 Gennaio si è tenuta presso la sala Danieli dell’Hotel St. Regis la conferenza stampa di presentazione del film Defiance - I giorni del coraggio. All’incontro hanno presenziato il regista del film Edward Zwick e l’attore protagonista Daniel Craig.
Volevo sapere da Craig se era a conoscenza della storia e come si è preparato ad interpretare questo personaggio realmente esistito.
D.C. - No, non avevo la benché minima idea di questa storia né tantomeno del personaggio. Sapevo di alcuni movimenti di resistenza in varie parti d’Europa ma non avevo notizia della resistenza da parte di ebrei in particolare. Conoscevo la faccenda della svolta del ghetto di Varsavia però non sapevo nulla nello specifico. A quel punto ho letto alcuni libri sull’argomento, non ultimo ovviamente il libro di Nechama Tec da cui è tratto Defiance ed ho avuto lunghe conversazioni sull’argomento. Ho cercato in questa maniera di documentarmi, di fare quanto più possibile.
Questo film propone forse per la prima volta l’immagine dell’ebreo guerriero, dell’ebreo che si sottrae al destino e si ribella. In questo particolare momento in cui si sta discutendo di una sproporzione di attacco sulla striscia di Gaza, il film è in grado di precisare qualcosa? Può far capire anche che chi parla di sproporzione forse ha la memoria corta?
E.Z. – Prima di tutto si deve capire che la cultura ebraica è anche una cultura di combattenti, di guerrieri che è partita dalla Bibbia. Se uno leggesse il libro di Joshua, o gli altri libri si renderebbe conto che questa cultura combattente e vigile esisteva già in quel tempo. Quello che i protagonisti cercano di fare in questa storia è quella di preservare, di conservare la loro cultura attraverso la forza e attraverso la resistenza ai nazisti. Quello che loro fanno è combattere per poter preservare la propria vita, per cercare di recuperare quanto meno le cose che gli sono state sottratte. Se trasponiamo tutto questo in una ambientazione moderna è molto importante essere estremamente specifici su quelle che sono le grandi differenze tra quel momento storico e il momento attuale. Quelle persone si trovavano di fronte ad un genocidio e quindi cercavano in tutte le maniere di sfuggire a questo. Oggi quando parliamo di medio oriente non possiamo parlare di genocidio. C’è genocidio in Darfur, lo abbiamo visto in Bosnia, lo abbiamo anche visto tra gli Utu e i Tutsi in Rwanda.
A proposito di ebraismo, il suo partner Liev Schreiber durante la lavorazione del film l’ha iniziata all’ebraismo?
D.C. – No, Liev Schreiber non mi ha iniziato all’ebraismo. Io non sono ebreo, la mia conoscenza dell’ebraismo era bassissima prima e tale è rimasta anche adesso; tra l’altro il personaggio che io interpreto non è neanche particolarmente religioso per cui non riesce lui stesso a vedere i parallelismi con la Bibbia. Lui si trova quasi per caso in questa condizione di condottiero. In realtà il suo eroismo non sta nel fatto che lui si prefigge come obiettivo di salvare delle persone. Il suo scopo è quello di salvare se stesso e i suoi fratelli e nel fare ciò si trova per caso in questa condizione di leader. In questa storia non abbiamo a che fare con delle cose chiare e definite, non è un qualcosa di bianco o nero. Siamo di fronte a delle complicazioni o delle difficoltà della condizione umana molto particolari, anche molto difficili. Queste persone sono spinte semplicemente alla sopravvivenza e anche l’idea che mentre erano lì pensassero alla creazione di uno stato ebraico indipendente è una idea folle.
Volevo sapere se ha pensato a Masada e al discorso guerriero delle tribù di Giuda, di Israele.
E.Z. - La storia raccontata in questo film è una storia che guarda sia indietro che avanti perché se andiamo a guardare l’immagine di queste persone inseguite che sono costrette a lasciare il luogo in cui vivono per andare da qualche altra parte, portando via i pochi possedimenti rimasti ci viene subito in mente l’immagine della diaspora rappresentata nella Bibbia e nel Vecchio Testamento. Proprio quello che io avevo in mente. Anche i due fratelli che si aiutano a vicenda cercando al contempo di salvare gli altri fa immediatamente pensare a Mosè e ad Aaron. D’altra parte però è una storia che guarda anche in avanti perché questa diaspora fa pensare a quello che ancora oggi succede ai profughi rifugiati che vengono cacciati via e devono fuggire mentre qualcun altro tenta di cancellare la loro cultura.
Volevo un commento su questo trend hollywoodiano di fare film ambientati durante la seconda guerra mondiale rappresentando ebrei guerrieri, nazisti buoni, mercenari.
D.C. – Sono stati di recente pubblicati articoli che parlano di questa tendenza. Io credo che gli eventi della seconda guerra mondiale siano rilevanti oggi come lo sono sempre stati. Ancora oggi noi viviamo le conseguenze delle decisioni che sono state prese prima e dopo la guerra. Quindi è una storia importante ancora oggi. Quello che viene definito da qualcuno una specie di nuovo genere, secondo me è un’idea ridicola. Per me sono elementi rilevanti in quanto sono storie umane e lo sono, da un punto di vista personale, perché hanno a che vedere con lo spirito umano e questo è quello che, come attore, a me interessa. L’importanza di questa storia è dovuta al fatto che sinora non era mai stata raccontata. E.Z. – Io credo che ormai di persone che hanno esperienza diretta di quegli eventi ne siano rimaste molto poche. Persone che hanno vissuto la seconda guerra mondiale ormai hanno ottanta anni o oltre. Tra cinque o dieci anni probabilmente non ci sarà più nessuno che abbia un ricordo o un’esperienza diretta di quei tempi. Io credo quindi che tra gli artisti si sia diffusa un pochino una certa ansia nel cercare di raccontare queste storie facendosi confermare le vicende da coloro che le hanno vissuto direttamente.
Volevo chiedervi notizie sulle difficoltà produttive e se c’è stato un problema nel reperire i fondi visto che si tratta di una produzione non tipicamente hollywoodiana.
D.C. – E’ stato chiaro sin dall’inizio che avremmo esclusivamente utilizzato la luce naturale e ovviamente la luce del sole. Spesso ne abbiamo avuta poca durante le giornate. Dovevamo fare sempre affidamento sulla luce, il che significava che l’attore non poteva andarsi a sdraiare ed aspettare perché si rischiava di perder qualcosa. Quindi sia gli attori che i tecnici dovevano essere sempre coinvolti, sempre presenti sul set e pronti all’occorrenza. Questo ha permesso che si creasse una buona atmosfera in questo gruppo. C’è stata una buona atmosfera e oltretutto questo ha infuso energia e carica alla produzione. Ha fatto freddo, pioveva, però noi ogni volta pensavamo alle persone che questa esperienza la avevano vissuta per un lungo periodo, per circa 3 inverni di fila. Mentre noi se non altro un letto dove tornare a dormire lo avevamo e qualche volta, non sempre, anche cibo caldo. E.Z. – Si può definire questo film molto più europeo che americano. Per raccogliere fondi siamo andati in Francia, in Germania, in Gran Bretagna, siamo venuti qui in Italia e poi, infine, abbiamo trovato un distributore nazionale americano che ha deciso di distribuire il film in patria. Da un punto di vista culturale però questa storia era sicuramente più interessante per gli europei di quanto non lo fosse per gli americani.
Non crede che enfatizzando, come è giusto che sia, ciò che è stato ieri si tenda a minimizzare quanto accade oggi.
E.Z. – Io credo che il film di finzione non sia in grado di parlare delle complessità odierne. Credo che questo sia più un compito riservato ai commentatori, ai giornalisti, a chi si occupa della attualità. Credo che a volte il cinema abbia bisogno di una certa distanza in termini sia temporali che fisici per cercare di distillare gli eventi e riunirli in un paio di ore. Per sua natura il cinema è riduzionista. Gli eventi odierni sono così complessi che richiedono un’analisi estremamente sofisticata per essere rappresentati. Credo tra l’altro sia molto importante raccontare le cose che guardano il passato perché purtroppo, oggi più che mai, i ragazzi giovani non leggono più libri di storie complesse. Credo quindi che il cinema abbia il dovere di dare una rappresentazione più fedele possibile di quelli che sono gli eventi storici. Questa credo sia una responsabilità del cinema.
Oltre al coraggio e alla forza d’animo dei protagonisti, quello che è emerso dalla pellicola è anche il tema dell’amore. L’amore per la libertà, l’amore tra alcuni dei protagonisti e l’amore tra i tre fratelli. Può essere rintracciato in questo il filo conduttore della storia?
E.Z. – Penso sia giusto. In un certo senso noi abbiamo ritenuto che il matrimonio, la fratellanza, il rapporto tra i fratelli, la sessualità, l’educazione sono quelle forze, quegli elementi che hanno mantenuto in vita queste persone. Alcune delle coppie che si sono formate in questa situazione, sono rimaste poi insieme per sessant’anni, quindi penso che definire l’amore come il fil rouge di tutto il film sia abbastanza evidente.
Negli anni 70, tra uno 007 e l’altro, Sean Connery fece un film molto bello e anche molto duro intitolato La colline del disonore. Si può dire che questo film sia il risultato di una scelta simile? E d’ora in poi come sceglierà i film da fare quando non si tratta dei vari 007?
D.C. – Io ho sempre operato le mie scelte in maniera non cosciente, ovvero non tenendo conto di un mio pensiero. La mia risposta non è basata su quello che ho fatto prima o quello dovrò fare; semplicemente è una reazione istintiva alla lettura della sceneggiatura. Quindi non ho mai fatto qualcosa per distinguermi da quello che ho fatto in precedenza anche perché così secondo me non fai affatto un buon lavoro. Io credo che il risultato di un film fatto per dovere piuttosto che per desiderio o per volere, è sicuramente un risultato pessimo.
