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Departures

Pubblicato il 12 aprile 2010 da Marco Di Cesare


Departures

Il film giapponese che l’anno scorso ha vinto l’Oscar come migliore pellicola in lingua non inglese, campione di incassi in patria, in seguito presentato in Italia in anteprima europea al Far East Film Festival del 2009 e ora uscito nei nostri cinema, è un immoto viaggio di fronte alla morte e a quanto essa rappresenta, tra la modernità e la tradizione, fin dentro le interiorità più nascoste delle persone, attraverso una quieta leggerezza che è degna di nota. Perché Departures è un’opera che sa muoversi con lenta insistenza intorno alle tematiche che sono legate alla morte – così come alla vita, ovviamente – per un film che mette in scena principalmente il muoversi e l’immobilità che sono proprie dell’esistenza e del suo viaggio ultimo, del quale però si sottolinea il suo non essere la conclusione di tutto.

Innanzitutto l’argomento stesso potrebbe apparire straniante e addirittura forte agli occhi più puri e meno smaliziati, così come il punto di vista attraverso il quale questo viene osservato e analizzato: difatti la morte viene portata in scena attraverso la fisicità di corpi divenuti ormai cadaveri, posti in primo piano, di fronte agli spettatori e ai personaggi che di tale messa in scena diventano loro stessi pubblico, come in una rappresentazione teatrale. Tale fisicità viene però resa più astratta attraverso il cerimoniale, pieno di rispetto e di amore, che le vive intorno.
Perché protagonista di Departures è Daigo Kobayashi, un orchestrale di Tokyo, violoncellista che suona in un ensemble che si esibisce in un teatro sempre mezzo vuoto. Come d’incanto quel che rimane del suo sogno si spezzerà quando l’orchestra verrà sciolta, fatto cui seguirà la tristezza e la liberazione della raggiunta consapevolezza da parte dell’uomo di non poter contare su di un sufficiente talento artistico. Così egli lascerà la grande città assieme alla moglie Mika (che lavora come webmaster) per tornare nel villaggio natio, nella casa della madre deceduta da due anni (mentre il padre è fuggito via quando lui era ancora bambino). In cerca di un lavoro, Daigo incrocerà l’annuncio di un’agenzia che offre molto denaro anche a persone senza esperienza, purché siano intenzionate ad assistere «Coloro che partono»: l’uomo scoprirà che non si tratta di un’agenzia di viaggi, quanto piuttosto di un mestiere che ha a che fare con i morti, per la precisione la tanatoestetica, ossia il rito di composizione e di vestizione, oltreché di trucco, sul corpo dei defunti, operazioni utili affinché questi possano partire serenamente. Professione questa cui l’uomo si adatterà dopo varie difficoltà, più di tutte forse l’incomprensione di chi gli sta intorno, a cominciare dalla moglie, verso una professione giudicata come una condizione degradante: quella del nokanshi.

Vi è molto in questo film nipponico: la vita e la morte indubbiamente, ma anche il senso del lavoro e della sua etica, oltreché il peso del denaro e della crisi economica, una presenza forte e costante del cibo («Gli esseri vivi, per rimanere vivi, si cibano di esseri morti»), come dello scontro tra l’individuo e il senso comune, senza dimenticarsi dell’importanza che riveste lo scorrere del tempo. «Quando ero bambino gli inverni non erano così freddi» dice tra sé e sé Daigo in apertura di film, mentre l’automobile nera del suo capo, l’anziano Ikuei Sasaki, si muove tra il bianco che la investe assieme alla pacata forza di una tormenta di neve. E il protagonista segue indubbiamente un percorso di crescita e di redenzione, in maniera alquanto classica, mostrando quanto sia normale quello che nella società odierna possa apparire anormale e umiliante, anche in un Paese che si pensa faccia del ricordo del proprio passato un suo punto di forza. Un passato che diviene ricordo individuale attraverso la riproposizione di un lunghissimo flashback - un viaggio nella mente, quindi - che copre la prima parte di un film che dura oltre due ore, minuti che tuttavia scorrono in completa tranquillità, senza alcun evidente intralcio, attraversati da uno sguardo che partecipa con distacco e che lascia affiorare un sentimento composto e delicato e un’ironia spesso divertita che traspare senza alcuno sforzo, in un costante equilibrio. Tutto all’insegna di una semplicità di intenti che, malgrado alcuni punti d’arrivo un po’ facili nella sua conclusione, serve per mostrare il raggiungimento dell’accettazione di sé, degli altri e del proprio passato alla luce di un presente che possa costituire il punto di partenza per la realizzazione di un futuro condiviso, simbolo di una stabilità che assume i contorni di un’armonia cosmica. Sforzo questo che fa mostra di sé alla conclusione del percorso narrativo, quando si mostra in tutta la sua evidenza la volontà - facilmente prevedibile fin dall’inizio - di chiudere il cerchio della narrazione in ogni modo, con troppa precisione e con intenti maggiormente didascalici che illustrano la crescita del protagonista e di quanti gli sono intorno. Mentre risulta totalmente fuori luogo una scena alquanto banale di Daigo che suona il violoncello immerso nella natura, questa l’unica libertà, comunque, all’interno di una regia per il resto sempre molto attenta, coadiuvata dallo stile inconfondibile delle musiche del grande Joe Hisaishi (che è stato parte integrante delle fortune artistiche di Takeshi Kitano, oltre che collaboratore da anni di un altro gigante come Hayao Miyazaki) che riescono a mantenere una dolce compenetrazione di partecipazione e distacco.
«È l’ultimo acquisto della tua vita, ma lo sceglie qualcun altro», dice la segretaria del signor Sasaki a Daigo, l’ultimo venuto. Bare per ogni possibilità economica, dalle meno care e pregiate fino a esemplari molto costosi: però «Tutte bruciano allo stesso modo», visto che in Giappone si utilizza sempre la cremazione. Una fine ultima questa che, tuttavia, riguarderebbe solamente i corpi per un’opera comunque pregevole che ha bisogno essa stessa di credere in ciò che racconta e che mostra di avere, in particolare, il bisogno di mettere in scena una rappresentazione di una bellezza che segni l’ultima immagine di un corpo che solo dopo l’intervento di un artista (pieno d’amore e rispetto, ma col distacco che si confà al proprio ruolo e alla situazione) potrà essere consegnato all’immortalità che riposa nel ricordo dello spettatore, perché da quel corpo scompaiano i segni delle fatiche passate.


CAST & CREDITS

(Okuribito); Regia: Yōjirō Takita; sceneggiatura: Kundo Koyama; fotografia: Takeshi Hamada; montaggio: Akimasa Kawashima; musica: Joe Hisaishi; interpreti: Masahiro Motoki (Daigo Kobayashi), Tsutomu Yamazaki (Ikuei Sasaki), Ryoko Hirosue (Mika Kobayashi), Kimiko Yo (Yuriko Kamimura); produzione: Amuse Soft Entertainment, Asahi Shimbunsha, Dentsu, Mainichi Hoso, Sedic, Shochiku Company, Shogakukan, Tokyo Broadcasting System (TBS); distribuzione: Tucker Film; origine: Giappone, 2008; durata: 131’; web info: sito internazionale in lingua inglese, sito del distributore italiano.


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