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Il mostro di St. Pauli

Pubblicato il 28 agosto 2019 da Matteo Galli
VOTO:


Il mostro di St. Pauli

Nessuno in Italia conosce Heinz Strunk (1962), musicista, performer, scrittore tedesco di grande successo. Nessun editore del nostro paese si è preso la briga di tradurre in italiano i suoi romanzi poco rispondenti al cliché del romanzo tedesco ponderoso e cerebrale Il più celebre romanzo di Strunk, capace di vendere qualcosa come 500.000 copie nell’arco di dieci anni, reca il titolo Fleisch ist mein Gemüse (La carne è la mia verdura), risalente al 2004. Non meno celebre e non meno venduto è il romanzo intitolato Der goldene Handschuh (Il guanto giallo, uscito nel 2017), ambientato a Sankt Pauli, il quartiere malfamato di Amburgo, città dalla quale Strunk proviene. Pur con molte aggiunte e variazioni fictional il romanzo si basa su una serie di avvenimenti di cronaca nera degli anni ’70, ruotanti alla figura di un serial killer, omicida di prostitute per lo più avanti con gli anni, rispondente al nome di Fritz Honka (1935-1998). Gli omicidi, quattro in tutto (compiuti fra il 1970 e il 1975), vennero scoperti solo per caso, allorché scoppiò un incendio nella casa di Honka e vennero rinvenute parti dei cadaveri che lui segava e tagliava senza poi provvedere a disfarsene, immaginatevi le condizioni igieniche di quella casa. Del resto, le vittime erano prostitute occasionali, alcune addirittura senza fissa dimora, nessuno si era mai incaricato di lamentarne la scomparsa. Il “Guanto Giallo” di cui al titolo è il locale dove Honka era solito assumere dosi spaventose di alcol e rimorchiare quelle che poi sarebbero divenute le sue vittime, anche, ma non solo, in seguito al tasso alcolico nel sangue. Pur con tutte le giustificazioni del caso (padre in campo di concentramento per motivi politici, lui stesso da bambino in campo di concentramento infantile, nove fratelli di cui tre morti alla nascita, abbandonato dai familiari, in giro per orfanotrofi etc. etc., a tutti gli effetti un disgraziato, un diseredato), Fritz Honka è e resta un serial killer, un individuo decisamente disgustoso, anche fisicamente repellente: con un difetto di pronuncia, il naso schiacciato in seguito a un incidente, strabico, claudicante. Difficile provare empatia per questo individuo.

Fatih Akin, egli stesso di Amburgo, si è posto un obiettivo certamente complesso, decidendo, pur fra numerose modifiche, di trarre un film dal romanzo di Heinz Strunk, che ha funto semplicemente da consulente ma non ha collaborato alla sceneggiatura. Un film che alla proiezione per la stampa ha fortemente polarizzato e, immaginiamo, continuerà a farlo quando uscirà fra dieci giorni nelle sale tedesche (vediamo se arriverà in Italia). L’obiettivo complesso consiste nel fatto che Akin ha voluto troppe cose contemporaneamente. In primo luogo ha voluto girare un film di genere, segnatamente un horror: in conferenza stampa non ha fatto mistero del fatto che il suo modello, all’origine di tutto, è George Romero con La notte dei morti viventi , a seguire John Carpenter. Il film, pur senza troppi eccessi, non disdegna sia sul piano visivo che su quello acustico effetti particolarmente disgustosi, non solo legati agli atti in sé che compie Honka, ma anche alla modalità (le donne vengono picchiate, violentate, strangolate, segate), al setting, alla tipologia dei personaggi coinvolti, potremmo parlare oltre che di un’estetica horror, di un’estetica della nausea, della bruttezza, della sporcizia, non osiamo immaginare se un film del genere dovesse mai essere anche accompagnato da effetti olfattivi. Per raggiungere questo risultato, disgustoso ma perfetto, naturalmente la troupe di Akin ha lavorato moltissimo sui costumi e sul trucco: il bravissimo e giovanissimo attore (cinematografico ma soprattutto teatrale) Jonas Dassler, poco più che ventenne, doveva sottoporsi ogni mattina a ben tre ore di trucco prima di cominciare a girare, trasformandosi in una specie di Quasimodo, anche qui esplicito omaggio a un film di culto dell’Akin bambino, ossia Il gobbo di Nôtre Dame, con Anthony Quinn. Il secondo obiettivo di Akin è fare un film sugli anni ’70 e se vogliamo anche sul cinema o su certo cinema degli anni ’70 in Germania Federale: anche qui molto lavoro su ambienti, arredamento, costumi, ma anche e soprattutto sulla colonna sonora, il juke box del Guanto Giallo e il giradischi, l’unico oggetto decente della catapecchia abitata da Honka, suonano tutte le canzoni tedesche più melodico-triviali di quegli anni, di cui non ripeteremo i titoli, tanto in Italia nessuno le conosce. Se le si conoscono, è soltanto perché si sono sentite nei film di Fassbinder che nella predilezione per il mélo è da sempre uno degli evidenti modelli di Akin; qui lo è nel raccontare la desolazione dei locali tedeschi, delle relazioni umane, e nel contrappuntare molte scene con musica leggera diegetica che canta di amore, passione, sogni mentre ciò che viene mostrato è l’esatto contrario; soprattutto le scene girate al Guanto Giallo fanno venire di continuo in mente analoghe scene nei film di Fassbinder, un titolo fra tutti: La paura mangia l’anima, ma il rapporto conflittuale con i vicini di origine greca che abitano al piano di sotto (protagonisti della scena forse più disgustosa di questo film per stomaci forti) non possono non ricordare Katzelmacher di RWF. Del resto, Hark Bohm, uno degli habitué del locale, ormai ottantenne, è un testimone e un memento proprio del cinema di Fassbinder. Akin va elogiato per il coraggio di aver dato vita a un film completamente diverso rispetto a quelli a cui ci aveva abituato, ma il risultato, fatti salvi i meriti tecnici, archeologici, citazionisti, non convince del tutto, in primo luogo perché, almeno a nostro avviso, il regista non è riuscito a raggiungere lo scopo che pure, dichiaratamente, si era prefisso: conferire autentica dignità al protagonista; in secondo luogo perché ha voluto fornire per soprammercato qualche accenno - che però risulta del tutto privo di sviluppo - di una linea che nel romanzo di Strunk era importante, cioè il carattere fondamentalmente interclassista del locale di cui al titolo, qui non si ritrovano solo i diseredati alcolizzati ma anche la buona borghesia di Amburgo che fa le sue scappatelle a Sankt Pauli. Nel film questo episodio è affidato all’incontro di due adolescenti, un incontro che risulta totalmente irrelato col resto.


CAST & CREDITS

(Der goldene Handschuh); Regia: Fatih Akin; sceneggiatura:Fatih Akin dall’omonimo romanzo di Heinz Strunk; fotografia: Rainer Klausmann; montaggio: Andrew Bird, Franziska Schmidt-Kärner; interpreti: Jonas Dassler (Fritz Honka), Margarethe Tiesel (Gerda Voss), Katja Studt (Helga Denningsen), Martina Eitner-Acheapong (Frida), Hark Bohm (Dornkraat-Max),); produzione: bombero international, Amburgo; origine: Germania-Francia, 2019; durata: 110’.


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