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Diaz. Non lavate questo sangue

Pubblicato il 13 aprile 2012 da Matteo Galli
VOTO:


Diaz. Non lavate questo sangue

Dopo mesi, anni di attese, polemiche, voci e smentite – sulle riprese, sui rapporti con le parti in causa: la Polizia, il Comitato Verità e Giustizia per Genova– dopo che il set ha toccato la Romania, l’Alto Adige e per un paio di settimane anche Genova, dopo che è stato presentato a Berlino – non in Concorso, dove non avrebbe affatto sfigurato, ma nella sezione Panorama – esce finalmente in sala il film di Daniele Vicari intitolato Diaz e sottotitolato Don’t clean up this blood.
Ricordare quel che avvenne nella tarda serata del 21 luglio del 2001 e nella notte fra il 21 e il 22 luglio, può sembrare tautologico e non mi metterò qui a snocciolare i dati: quanti poliziotti diedero l’assalto alla scuola Diaz, quanti vennero trasportati alla caserma di Bolzaneto e lì ulteriormente maltrattati, quanti furono i feriti, chi fossero, da quali paesi venissero, in rete si trova tutto, una rinfrescata alla memoria fa bene a tutti. La dichiarazione di Amnesty International compendia tutto quanto si possa dire sull’episodio: “la più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale”, se vi par poco.
Il cinema italiano è da anni che ronza attorno a questo evento inaudito, lo hanno fatto 35 registi in tempo reale nel progetto coordinato da Francesco Maselli (Un altro mondo è possibile, 2001), Fulvio Wetzl (Faces-Facce, 2002), Francesca Comencini (Carlo Giuliani, ragazzo, 2002) e Davide Ferrario (Le strade di Genova, 2002). Quattro film girati a caldo.
Vicari di anni ne ha fatti passare dieci da allora e la domanda che sorge spontanea allo spettatore è: in che cosa si differenzia questo film dagli instant movies, fatti sull’onda dello sdegno civico nell’arco di poche settimane o mesi? La base documentale di cui Vicari si è potuto avvalere è enormemente maggiore, basti pensare agli atti processuali, la sentenza di appello che ha almeno in parte corretto la sentenza assolutoria di primo grado è datata 5 marzo 2010, inoltre si nota -rispetto agli altri film – che questo, pur girato da un regista italiano, ha un respiro europeo nella vasta gamma delle testimonianze, nella nazionalità dei protagonisti e nelle lingue parlate nel corso del film: francese, inglese, tedesco, spagnolo, una scelta stilistica assolutamente convincente. Ma forse il vero valore aggiunto prodotto dalla distanza temporale rispetto agli eventi (fermo restando il carattere di testimonianza civica che questo film al pari degli altri intende rappresentare) è la complessità estetica del progetto: non più un agglutinamento di storie, con un alto tasso di casualità compositiva, storie forti quasi esclusivamente in grazia della loro valenza testimoniale, ma un organismo narrativo oltremodo complesso: multi-prospettico, a-cronico, digressivo, centrifugo, episodi raccontati e ri-raccontati, da più punti di vista, con una regia nervosa e varia capace di utilizzare documento, finto documento anticato, riprese convulse, virtuosistici e complessi movimenti di macchina e di fonderli in un’opera ambiziosa che combina documento e fiction. A differenza di quanto accadeva nel film di Gatlif dedicato agli “indignados”, la commistione di documento e fiction qui risulta però plausibile, forse perché la trascrizione meramente documentale degli eventi l’avevano già compiuta quei registi che si erano confrontati col tema prima di Vicari, così come risulta plausibile la combinazione – un lavoro di casting davvero enorme, se si tiene conto che il film combina ben 130 storie - di volti molto noti del cinema italiano (Santamaria, Germano, Scarpa) e volti più giovani, meno noti o sconosciuti, del cinema italiano ed europeo.
Eppure – ed è questa forse la principale contraddizione del film – anche ricorrendo a queste strategie compositive così raffreddate il film di Vicari resta un’opera molto “di pancia”, che non compie e non vuole compiere un’analisi articolata su quel che è accaduto, delle varie posizioni in campo (poco o nulla si dice sui black bloc, per esempio), ma che vuole produrre uno shock. L’unica “analisi” offerta da Vicari è da ricondursi al leitmotiv che attraversa il film, quell’innocua bottiglia (bottiglia beninteso, non bottiglia molotov, le molotov sarà la polizia a piazzarle ad arte alla Diaz) lanciata contro la camionetta della polizia che s’infrange sul selciato e che dà la stura, ore dopo, all’inaudita reazione della polizia.
Al servizio dello shock che intende produrre, Vicari pone sia la regia che la sceneggiatura. Servendosi un po’ troppo spesso della figura retorica dell’accumulatio, rifuggendo da ellissi e da sottintesi, il regista rischia di causare – soprattutto in quello che resta l’evento-chiave, cioè l’assalto alla scuola - una specie di disgusto da overdose di violenza, non una sola manganellata ci viene risparmiata, non una ferita, un naso spaccato, un braccio fratturato, una pozza di sangue, e l’urlo: “Basta!” del vicequestore Max Flamini, interpretato da un ottimo Claudio Santamaria e rivolto ai poliziotti della sua squadra sembra quasi preludere e alludere alla saturazione dello stesso spettatore che poi però, una volta che la scena passa a Bolzaneto, dovrà vederne ancora tante. Il motto del sottotitolo (“Don’t clean up this blood”) Vicari lo ha preso alla lettera.


CAST & CREDITS

Regia: Daniele Vicari; sceneggiatura: Daniele Vicari, Laura Paolucci; fotografia: Gherardo Gossi; montaggio: Benny Atria; interpreti: Claudio Santamaria (Max Flamini), Jennifer Ulrich (Alma Koch), Elio Germano (Luca Gualtieri), David Jacopini (Marco), Rapoh Amoussou (Etienne), Fabrizio Rangione (Nick Janssen), Renato Scarpa (Anselmo Vitali); produzione: Fandango, Roma; origine: Italia- Romania-Francia; durata: 127’.


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