Disastro a Hollywood

Erano anni che non si vedeva un Barry Levinson così ispirato. Dopo una serie di risultati altalenanti ottenuti con le sue più recenti opere, l’irriverente e cinico regista americano riesce con Disastro a Hollywood a tornare finalmente sui livelli di alcune sue commedie di successo realizzate tra la parte iniziale della carriera e l’epoca della prima consapevolezza artistica. Certo, questa sua ultima fatica non raggiungerà le vette del suo miglior cinema leggero (che poi leggero non è), quello per intenderci di Good morning, Vietnam, Rain man, Toys o Sesso e potere ma almeno si può riscontrare quel concreto passo in avanti che tutti si attendevano dopo le ultime scialbe prove del regista (delle ultime quattro commedie, solo Bandits ha messo in mostra sprazzi di buon cinema).
What just happened?, questo il titolo originale del film, racconta una settimana tipo della vita di Ben, produttore hollywoodiano interpretato da Robert De Niro, che tra mille ansie e una varietà infinita di medicinali ingurgitati, si ritrova a combattere con una serie di problematiche tipiche di chi deve manovrare i fili della bizzarra industria cinematografica. Nella settimana raccontata dal film, Ben corre come impazzito dietro i suoi innumerevoli impegni, cercando di tappare nel miglior modo possibile falle che il suo mestiere inevitabilmente provoca. A volte utilizzando l’arma abusata del compromesso, altre invece optando per una linea decisamente più rigida, egli si divide tra la difficoltosa postproduzione di un film controverso, da chiudere in tempo per la prima al Festival di Cannes (la radicalità di un regista può giocare brutti scherzi!), i capricci di un divo sovrappeso che alla vigilia del primo ciak si rifiuta di tagliarsi la sua barba incolta e una vita privata condita dalle esigenze di una famiglia allargata, da terapie di coppia, gelosie varie ed avventure occasionali. Saper muoversi in questa giungla è la prima dote di un bravo produttore, anche se nessuno può mai dire di averla definitivamente imparata, nemmeno il bravo Ben.
Il film di Levinson getta uno sguardo pungente e a tratti aspro sull’immenso carrozzone di Hollywood, a volte mirando al vorticoso cinema di Robert Altman (il collegamento con I Protagonisti è d’obbligo) altre invece richiamando la sagacia di un Woody Allen d’annata. Di questi autori Levinson sembra maggiormente subire quella che Michel Chion avrebbe definito la tendenza al vococentrismo o al verbocentrismo. Una elevazione del ruolo delle parole e del suono da esse emesso che in Disastro a Hollywood permette di assistere a momenti di una intensità e di un ritmo a dir poco sensazionali. Il merito di questo, oltre ad una sceneggiatura ricca di testo, è da attribuire ovviamente ad una recitazione brillante fatta di interpretazioni in continuo movimento fornite da attori istrionici e malleabili, tra i quali, oltre al solito De Niro (più in alto del suo recente standard), spicca la performance straordinaria di John Turturro, qui alle prese con uno squilibrato agente sulla via della depressione. L’elemento affascinante del film di Levinson è il rapporto tra la frenesia, il ritmo della vita di un uomo e la scansione del tempo. Ogni avvenimento che accade sullo schermo non sembra mai essere definitivo, proprio perché lo scorrimento temporale non garantisce mai stabilità ma solo nuovi colpi di scena. Un po’ come d’altronde succede nel cinema, quando la narrazione propone in corso d’opera i suoi capovolgimenti repentini. Disastro a Hollywood è metacinema allo stato puro, perché i meccanismi cinematografici decide di raccontarli in primo luogo attraverso la propria struttura: come l’assenza dei tempi morti, ad esempio, cifra stilistica per tanto cinema americano ed espressione principale delle nevrosi di un film come questo, o il ricorso a tecniche come l’accelerazione, simbolo della comunicazione moderna ed immagine chiave degli spostamenti fisici (i movimenti continui in automobile) e mentali (ogni movimento nel film prevede un cambiamento psicoattitudinale) del protagonista Ben. La regia di Levinson trova la sua definitiva compiutezza nella accentuazione parossistica dei clichè legati all’industria cinematografica. Si diverte a violentare il suo mondo il regista di Baltimora, a metterlo talvolta alla berlina senza mai sfociare però in atteggiamenti snobistici. Anzi il messaggio che emerge dalla visione di Disastro a Hollywood è un metaforico abbraccio del regista nei confronti di un mondo sicuramente pieno di storture, esasperazioni, da criticare per certi suoi vizi ma sempre e comunque generoso nei confronti di chi vuole apprezzarlo con sincerità e passione. Sostanzialmente quello che lui stesso ha fatto in più di venticinque anni di onorata carriera. Il suo omaggio è più sgangherato e confusionario rispetto alla malinconia di un Bogdanovich o alla maestria di un Altman, ma solo perché l’approccio al discorso è molto più istintivo e viscerale. Il risultato è un film tumultuoso, in continuo movimento, irriverente e ansiogeno, che vuole, al contempo, porsi come espressione tangibile di un’epoca storica e come il turning point risolutore della carriera di un grande professionista di Hollywood.
(What Just Happened?) Regia: Barry Levinson; soggetto e sceneggiatura: Art Linson, tratto dal suo omonimo romanzo; fotografia: Stéphane Fontaine; montaggio: Hank Corwin; musiche: Allan Meson; scenografia: Anthony D. Parrillo; costumi: Donna Maloney; interpreti: Robert De Niro (Ben), Catherine Keener (Lou Tarnow), Sean Penn (Sean Penn), John Turturro (Dick Bell), Michael Wincott (Jeremy Brunell), Robin Wright Penn (Kelly), Kristen Stewart (Zoe), Stanley Tucci (Scott Solomon), Bruce Willis (La Star); produzione: 2929 Productions, Tribeca Productions; distribuzione: Medusa; origine: USA; durata: 107’; web info: http://www.whatjusthappenedfilm.com/.
