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Dissoluzioni e frammentazioni: il linguaggio filmico di Terrence Malick

Pubblicato il 11 luglio 2013 da Arianna Pagliara


Dissoluzioni e frammentazioni: il linguaggio filmico di Terrence Malick

Quello di Malick sembra essere un percorso filmico che procede in maniera ininterrotta e progressiva, lentamente ma con decisione, verso la disgregazione dell’ oggetto-film, che in questa prospettiva si scinde e si disintegra, si annebbia e si sfalda per diventare un caleidoscopio di immagini che splendono per la loro bellezza, ma hanno perso in parte o del tutto i nessi narrativi e spazio-temporali che le legano. La struttura dei film di Malick è spesso fluida, e sembra rispecchiare un’istanza creativa libera, poetica, spontanea, che di fatto rifiuta l’idea di ingabbiare le scene e le sequenze in un tutto rigidamente coerente e ordinato. Questo non vuol dire, tuttavia, che non ci siano “regole” sotto gli schemi compositivi del regista, ma semplicemente che la sua grammatica filmica e il suo stile sono frutto di una visione estremamente personale e soggettiva, che appare man mano sempre più distante dal cinema tout-court.
L’esempio più macroscopico di questo approccio è certamente The Tree of Life, un punto di arrivo e un film cardine, per così dire, della cinematografia malickiana. Qui la visione, che spesso coincide con lo sguardo del protagonista bambino e rispecchia quindi la dimensione fugace e incerta del ricordo, viene messa in crisi e si fa parziale e smembrata, sia sul piano puramente figurativo (inquadrature rapide che danno un senso di precarietà, movimenti di macchina leggeri e nervosi come il volo di una farfalla) che su quello della struttura narrativa: i nessi di causa-effetto che legano gli eventi vengono meno, la cronologia delle azioni è annullata, dal punto di vista spaziale e temporale vengono giustapposti due mondi lontani e differenti (la storia di una famiglia americana negli anni Cinquanta e la nascita della vita sul pianeta Terra).
Se The Tree of Life è un apice e un punto di svolta, To The Wonder si configura come diretta emanazione del precedente film di cui rispecchia lo stile e l’impostazione, ma anche come un passo in avanti rispetto ad esso nella messa in discussione degli elementi fondanti dell’ oggetto-film. A subire un processo drastico di sottrazione e dissoluzione sono qui infatti anche i personaggi, che invece in The Tree of Life restavano ancora solidi nelle loro differenze e peculiarità, associati a concetti opposti e simmetrici (grazia e natura, cioè amore, tenerezza e comprensione da una parte, durezza, ostinazione e severità dall’altra), sebbene fossero descritti in maniera quanto mai poetica e sfumata. Neil e Marina, gli amanti protagonisti di To The Wonder, sono invece soltanto i due termini di una relazione, le due rive opposte e speculari consumate dalla marea del sentimento amoroso, che ora sale e ora scende, rendendoli a fasi alterne entusiasti e felici oppure rabbiosi e amareggiati. Non sono più individuati nelle loro singolarità, e lo spettatore non è partecipe delle loro vite dall’interno, conosce poco della loro storia e del loro passato. I pensieri che vengono esplicitati dalle voci fuori campo sono universali, sono riflessioni sugli stati d’animo e sui mutamenti dell’amore, e non dipendono strettamente dalle identità dei personaggi cui appartengono, ma anzi le trascendono. Neil e Marina sono oramai sono dei segni, delle idee, delle tracce incerte.
Andando a ritroso nella filmografia di Malick notiamo come la frammentazione della linea temporale di The Tree of Life e il generale senso di sfaldamento che segna gli ultimi due lungometraggi del regista siano preceduti da un progressivo allentarsi e dilatarsi tanto della struttura filmica quanto, più specificamente, della dimensione temporale. Il film d’esordio dell’autore, Badlands, ancora compatto nella costruzione, era già caratterizzato da un ritmo dilatato e a tratti straniante, e descriveva due protagonisti paurosamente segnati dal senso di distacco dalla realtà. Kit e Holly, un giovane assassino seriale e la sua fidanzata, vagano per gli sterminati e silenziosi deserti americani e Malick racconta la loro totale e definitiva perdita di orientamento, che è fisica quanto interiore ed emotiva.
Lo svuotamento dello spazio e la preminenza della Natura, maestosa e capace di inghiottire l’uomo nella sua desolata vastità, segna quindi il primo film di Malick – un esordio folgorante, che affascina e sorprende con le sue atmosfere sospese e quasi alienate – quanto la sua seconda opera. I Giorni del Cielo, che parzialmente inverte la tendenza allo sfaldamento poiché piuttosto chiaro e solido sul piano dell’azione, è di nuovo impostato visivamente all’insegna di un preponderanza del vuoto: i campi dorati sembrano non avere confini, i cieli sono immensi, la grande casa del fattore – uno dei personaggi principali – perde tutta la sua imponenza quando viene inquadrata nel desolante vuoto della campagna, che sgomenta e al contempo incanta. Il processo di sottrazione è quindi, in questo caso, tutto concentrato sul piano spaziale.
Fin qui però, nonostante la sensazione di rarefazione e la corposità dei silenzi, i film di Malick hanno ancora una certa solidità, che verrà drasticamente cancellata con il meraviglioso La sottile linea rossa. Giustamente considerato tra i suoi lavori più riusciti e complessi, questo film è una meditazione corale sugli orrori della guerra. Lo scarto tra questo lungometraggio e i precedenti è netto: le voci fuori campo dei soldati si alternano e si miscelano in tutto indistinto, la riflessione filosofica sulla sofferenza e sulla follia umana si fa esplicita, la traccia narrativa è ormai esile e vaga. L’indagine interiore sui e dei personaggi diventa più importante dell’azione, che si dilata e si confonde. Della guerra Malick restituisce immagini di grande potenza, spesso fortemente simboliche. Ma ciò che conta non è il susseguirsi degli avvenimenti quanto il lirismo delle immagini che compongono un mosaico doloroso e tuttavia lucente sull’impossibilità umana di rinunciare all’odio e all’aggressività. Il successivo The New World - meno corposo e articolato del precedente film ma in ogni caso ricco di fascino dal punto di vista figurativo e intrigante nella riflessione che pone in atto – anticipa la relazione bipolare uomo-donna di To The Wonder e dilata ancor più vistosamente la dimensione temporale, sottraendo alla narrazione gli eventi cardine, indugiando sui cosiddetti “tempi morti” e esaltando il lirismo della rappresentazione. Quello di Malick è ormai un cinema che procede verso territori liminali facendo poche concessioni allo spettatore, al quale è richiesto un completo abbandono per immergersi in un universo essenzialmente poetico. Il film seguente, The Tree of Life, approda come già detto a risultati estremi e radicali, che tuttavia – come si intuisce da questa breve analisi – trovano le loro radici nell’approccio che caratterizza le precedenti opere, in maniera graduale ma sostanziale.
In sintesi, quello del regista americano appare come un percorso coerente e solido, e il suo ultimo film – pure criticato da molti per una certa ripetitività che in parte lo penalizza – si configura come l’inevitabile risultato di un’indagine che ha come oggetto non solo ciò che viene rappresentato (i temi prediletti di Malick: la Natura, il rapporto dell’uomo con lo spazio, l’introspezione e in un certo senso la filosofia) ma anche il modo della rappresentazione, cioè il linguaggio filmico in sé per sé, di cui il regista mette fecondamente in crisi gli elementi fondanti (narrazione, dimensione spazio-temporale, personaggi) per rinnovarne, attraverso la forma, l’essenza profonda.


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