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District 9

Pubblicato il 24 settembre 2009 da Lorenzo Vincenti


District 9

Era il lontano 30 ottobre 1938 quando, per la prima volta nella storia, veniva documentato attraverso l’ausilio di un supporto mediatico l’approdo improvviso di esseri intergalattici sul nostro pianeta. L’inaspettata invasione di alieni provocò terrore e panico su tutto il territorio statunitense, costringendo decine di persone, ignare della goliardica messa in scena approntata per radio dall’allora giovanissimo Orson Welles, ad abbandonare le proprie abitazioni e rifugiarsi nelle chiese cittadine. Terrore, spavento, esplosione d’ansia si mischiarono con rapidità impressionante all’alone di mistero provocato da un fenomeno a quel tempo ancora poco conosciuto, donando così dignità storica a quello che è considerato ancora oggi uno degli eventi mediatici più strepitosi della storia. Da allora il clamore attorno alla storiella fantascientifica dell’invasione aliena sul nostro pianeta, seppur con toni minori rispetto a quel giorno, non ha smesso di smuovere le coscienze e attirare le attenzioni. Il cinema in particolare non ha mai dimenticato quell’evento e lo ha ciclicamente riproposto al proprio pubblico variando di volta in volta l’essenza della pietanza e la forma di una portata sempre più appetitosa. Abbiamo così avuto l’opportunità grazie al grande schermo di assaporare marziani buoni e cattivi, di conoscere quelli suscettibili di Burton, quelli incontenibili di Spielberg (nella versione apocalittica della lettura di Welles) e quelli invisibili di Emmerich. Abbiamo visto marziani dalle sembianze umane e alieni premonitori, per non parlare poi di quelli in chiave trash dei b-movies americani che tanto hanno contribuito a rendere popolare il fenomeno dei cosiddetti Ufo. Ciò che però non avevamo ancora visto in un film – a parte la parentesi leggera dei Men in Black, in cui però gli alieni erano costretti a camuffarsi – è l’integrazione di questi coinquilini intergalattici con il sistema sociale del nostro pianeta e con l’insieme di leggi e regole (anche non scritte) che lo governano. Un evento a cui aspira oggi District 9, opera d’esordio del regista sudafricano Neil Blomkamp, in cui la descrizione del fenomeno diviene così forte e completa da arrivare ad assumere i connotati, talvolta negativi, dell’immigrazione clandestina (con gli effetti da essa provocati). Gli immigrati del nuovo millennio sono così costretti a vivere in disparte nel film di Blomkamp, più precisamente in un campo di accoglienza per esseri non umani situato nel mezzo di Johannesburg, metropoli problematica sopra la quale grava da circa vent’anni, così dicono le testimonianze raccolte nel film, la presenza ingombrante e minacciosa della navicella madre degli alieni. Essi ovviamente non sono più quelli raccontati per radio da Welles, non appaiono più, in questo tipo di cinema, come oggetti non identificati o come le misteriose creature che tanto turbavano il sonno degli umani in passato. Divengono al contempo soggetti riconosciuti e l’incarnazione delle paure più concrete, quotidiane, come quelle provate nei confronti dell’immigrato di turno, sempre più diffusamente visto nella società contemporanea come l’ospite indesiderato e per questo da rinchiudere, catalogare ed emarginare. Gli alieni di District 9 sono talmente riconosciuti come parte integrante del meccanismo terrestre da essere considerati come minoranza indesiderata. Una minoranza che non appena si rende necessario lo spostamento in un nuovo distretto, si sente in dovere di difendere i propri diritti, di combattere per la propria casa, per la sicurezza e per la dignità non-umana. Fino alla lunga scena dello sgombero dal distretto voluto da una fantomatica organizzazione di controllo degli alieni chiamata MNU (Multi-National United), District 9 appare come il film che non ti aspetti, che sorprende per la simbologia che utilizza – non è peregrina l’idea della navicella come barcone del nuovo millennio o il district 9 come la versione postapocalittica del centro di smistamento –, per l’evocativa costruzione di certi frammenti particolarmente sensibili al tema della diversità in generale – fenomeno sempre in movimento e in continua ridefinizione – e per una forma di impronta marcatamente realistica che per tutta la parte iniziale della pellicola tiene banco eccitando la visione dello spettatore attraverso un mix esplosivo di immagini amatoriali, frammenti di false interviste e notiziari h24 in stile americano. Elementi, questi ultimi, che avrebbero definitivamente incatenato il film al mockumentary tanto amato dal produttore Peter Jackson, se non fosse intervenuta una virata improvvisa di Blomkamp a modificare radicalmente la direzione della sua creatura e ad innescare sopra di essa una vicenda altrettanto esplosiva, tutta incentrata sul personaggio principale di Wikus van der Merwe, il responsabile MNU per lo sfratto alieno, improvvisamente colpito durante un intervento nel distretto da un virus misterioso che muta l’aspetto di chi viene colpito per trasformarlo gradualmente in un essere non umano. Presa coscienza della propria situazione e costretto a fuggire da tutto e da tutti per via della sua condizione ibrida, il protagonista cercherà nel corso dell’opera di ritornare alla normalità, coinvolgendo gli alieni responsabili del suo mutamento genetico e combattendo l’ottusità ancora una volta messa in mostra dal genere umano. District 9 è un film a tratti entusiasmante, particolarmente efficace nelle sue prime battute e più ordinario con lo scorrere dei minuti. Ispirato dal suo famoso cortometraggio Alive in Jo’burg, nel quale già si percepivano i tratti caratteristici poi ripresi in District, Blomkamp mette in mostra in questo suo lungometraggio inaugurale un immenso talento, espresso magnificamente da una messa in scena accurata, vigorosa e racchiuso nella capacità di infondere originalità ad ogni componente della struttura filmica. Dalla sceneggiatura scoppiettante, a tratti esilarante, tutta concentrata sulla esaltazione delle difficoltà di comunicazione tra esseri e sul rafforzamento, a volte ridondante, delle tematiche legate all’integrazione, alla multietnicità della società e alla contaminazione tra culture differenti (componenti particolarmente radicati in una nazione come il Sud Africa), sino ad arrivare all’approccio visivo, a nostro avviso vero punto di forza di una architettura che è in grado di essere classica e innovativa allo stesso tempo, frenetica quanto basta e particolarmente suggestiva nell’accostamento tra formati di diversa qualità e sostanza (senza tralasciare l’apporto fondamentale degli effetti speciali). L’opera coraggiosa e innovativa non sarebbe tale se in certe occasioni non dimostrasse di saper osare più del dovuto, cosa che puntualmente tenta di fare District 9 quando nella concitazione dello sviluppo rilancia forse eccessivamente provocando involontariamente delle falle nel sistema attribuibili più all’intraprendenza che alle reali mancanze del nostro giovane autore. Quando il film, infatti, nel finale mostra un leggero sfilacciamento di quella tensione emotiva così meticolosamente costruita nei momenti precedenti, ciò finisce per non infastidire più di tanto lo spettatore ormai catturato dallo sforzo sincero di un regista talentuoso ed energico al quale è possibile perdonare anche qualche piccola lacuna dovuta alla poca esperienza.


CAST & CREDITS

(District 9) Regia: Neill Blomkamp; soggetto e sceneggiatura: Neill Blomkamp, Terri Tatchell; fotografia: Trent Opaloch; montaggio: Julian Clarke; musiche: Clinton Shorter; scenografia: Philip Ivey; interpreti: Sharlto Copley (Wikus), David James (Koobus), Jason Cope (Christopher Johnson), Vanessa Haywood (Tania); produzione: Wingnut Films in associazione con Tristar Pictures, Block/Hanson; distribuzione: Sony Pictures Releasing Italia; origine: USA, N.Z.; durata: 112’; web info: http://www.district9.it/.


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