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Disturbia

Pubblicato il 19 agosto 2007 da Alessandro Izzi


Disturbia

Il vero peccato mortale di un film come Disturbia non è tanto nella profanazione di uno dei testi più sacri di Hitchcock (il film è un altro remake confessato di La finestra sul cortile) quanto, piuttosto, nella sua rinuncia aprioristica ad ogni ambiguità e ad ogni sconfinamento nei territori dell’etica e della morale.
Per il maestro del brivido la storia di un personaggio costretto all’immobilità che non trova altro modo di ingannare il tempo se non quello di spiare i propri vicini era solo il pretesto per una riflessione altissima sul tema del voyeurismo (con tutte le implicazioni metacinematografiche che direttamente ne conseguono) e sul limite quasi invisibile che separa l’esercizio della nostra libertà (che è anche quella di guardare quello che ci circonda) dal crimine. Per il regista inglese il vero “colpevole” della pellicola non è tanto e non è solo l’assassino che fa a pezzi la moglie, ma è anche il fotografo che guarda per il puro piacere di farlo senza curarsi di quanto “dentro” il suo sguardo è capace di arrivare. Hitchcock gioca, nel suo capolavoro esemplare con l’essenza del whodonit e ci mette di fronte due crimini che si riflettono specularmente: da una parte quello del protagonista che sfonda le mura della privacy andando a toccare con mano, e non senza genuini momenti di imbarazzo, anche situazioni di piccola tragica disperazione (la storia della povera zitella che cena da sola) e dall’altra quella del delitto vero e proprio. Mentre, però, la colpevolezza del personaggio interpretato da James Stewart è sempre palese anche se sostanzialmente invisibile dal momento che lo spettatore è sempre fin dall’inizio portato ad immedesimarsi nel suo sguardo, quella dell’assassino è costantemente messa in dubbio e bisogna aspettare il finale perché si faccia piazza pulita di ogni ambiguità e il delitto brilli in tutta la sua efferatezza.
La finestra sul cortile è figlio di un’epoca incerta, quando ancora l’America viveva in una propria innocenza e quando si stavano solo preparando gli incubi del Vietnam e gli scandali del Watergate. A riguardarlo oggi si resta ammirati nel constatare quanto il testo sia stato in grado di “pre”vedere lo stato del presente additando con limpida chiarezza tutte le contraddizioni etiche che sono legate all’atto di “spiare” (e non importa quanto siano alte ed apparentemente giuste le motivazioni che ci spingono a farlo). Oggi in pieno Patriot act, nell’epoca del reality show, quando anche e soprattutto la televisione fa dell’osservazione dal buco della serratura una cosa non solo lecita, ma anche divertente, le cose sembrano essere cambiate in maniera irreversibile.
Lo snodo centrale di questo “cambiamento dei tempi” lo ritroviamo, a livello meramente narrativo, in un dettaglio apparentemente marginale: in Disturbia lo spettatore sa praticamente sin dall’inizio che il “vicino di casa” è realmente un serial killer. Sicché l’assunto hitchcockiano che mette sui piatti della bilancia il colpevole certo di un crimine apparentemente piccolo (il guardone) con il colpevole sempre incerto di un atto ben più grave (l’omicidio) finisce miracolosamente ribaltato. Assicurare il “vero” mostro alla giustizia diventa la vera priorità per lo spettatore in sala: un trionfo, questo, per la nazione che inneggia alle guerre preventive. E, anzi, lo spionaggio, che si avvale di tutti i più moderni strumenti che la tecnologia è in grado di offrirci (telecamere, cellulari, palmari), diventa necessario e fondamentale non solo per scovare i colpevoli dei crimini più disparati, ma anche per trovare le parole più giuste per fare la propria dichiarazione d’amore alla ragazza dei nostri sogni (e non importa tanto, alla fine, che nel guardarla col binocolo la si faccia prima di tutto “oggetto” e non persona).
Certo, ci si obietterà che in fondo il film di Caruso non vuol essere altro che un divertissment di genere (ma anche La finestra sul cortile era tale e la cosa non gli ha impedito di essere anche un capolavoro), ma non può non attraversarci un brivido quando, dopo la risoluzione finale, sullo scorcio che anticipa i titoli di coda, vediamo la coppietta di fidanzatini flirtare bellamente davanti all’occhio della telecamera dell’amico fedele (scena che fa il paio con l’epilogo di Transformers dove identiche effusioni si consumano sotto lo sguardo paterno dei robot venuti dallo spazio): quasi a dire che l’intrusione di uno sguardo dall’alto nelle nostre vite è più che “benevola” e giusta. E poi, anche in una logica prettamente formale e, appunto, “di genere” ci è difficile perdonare al film le pesanti cadute di tono del finale quando entriamo insieme col protagonista nella casa degli orrori e ci vediamo rispolverato davanti tutto l’armamentario dei luoghi comuni sui serial killer.
Se c’è una cosa che funziona in Disturbia, questa è solo il cast che annovera volti “giusti” e talenti sicuri anche se preferiamo Shia LaBeouf nei panni più dimessi del cinema indipendente (Guida per riconoscere i tuoi santi). Mentre ci lascia a bocca aperta leggera il nome di Spielberg (il gigante che ha fatto di Minority report una Bibbia sulle contraddizioni morali dell’atto del vedere nell’America del Post 11 settembre) tra i produttori di questo filmettino che potrà, al più piacere agli adolescenti di nuova generazione.


CAST & CREDITS

(Disturbia); Regia: D. Caruso; sceneggiatura: Christopher B. Landon, Carl Ellsworth; fotografia: Rogier Stoffers; montaggio: Jim Page; musica: Geoff Zanelli; interpreti: Shia LaBeouf (Kale), Carrie-Anne Moss (Julie), Sarah Roemer (Ashley), Aaron Yoo (Ronnie), Kurt David Anderson (Courier), Matt Craven (Daniel), Elyse Mirto (Signora Carlson); produzione: Cold Spring Pictures, DreamWorks SKG, Montecito Picture Company, The, Paramount Pictures; distribuzione: UIP; origine: USA, 2007; durata: 104’; webinfo: Sito ufficiale


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