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Doomsday - Il giorno del giudizio

Pubblicato il 15 settembre 2008 da Alessandro Izzi
VOTO:


Doomsday - Il giorno del giudizio

La fantascienza catastrofica attecchisce e prolifera particolarmente bene in Inghilterra per due motivi, uno di carattere eminentemente storico, l’altro geografico.
La Gran Bretagna, infatti, è stata la culla della Rivoluzione industriale ed ha vissuto sulla sua pelle sia la dimensione scientifica ed eroica delle grandi invenzioni, sia la dimensione drammatica dell’orrore della catena di montaggio e della riduzione dell’uomo a mero ingranaggio di un meccanismo più grande di lui. Non deve stupire, quindi, che il racconto di anticipazione trovi lì un terreno così fertile ed aperto sia sul versante della fantascienza tecnologica (alla Asimov, per intenderci) che su quella umanistica (alla Silverberg). In ogni caso la vocazione più profonda della fantascienza inglese sembra essere votata alla dimensione catastrofica, alla visione di quegli scenari da apocalisse che potrebbero avverarsi se l’uomo non frena le ambizioni della sua scellerata corsa al progresso. Un filone, quello di cui stiamo parlando, che parte dal mitico War of the worlds di Wells e che arriva dritto dritto fino ai grandi romanzi della tetralogia di James Ballard che miscela i ricordi della seconda guerra mondiale con le peggiori paure dell’uomo contemporaneo (The Wind From Nowhere, The Drowned World, The Burning World, The Crystal World).
La dimensione geografica della Gran Bretagna (che di fatto è un’isola anche se a poche bracciate dal continente) favorisce questa propensione apocalittica. Anche se aperta al commercio internazionale e patria di un colonialismo che ne ha spinto la bandiera sino in Nuova Zelanda, la patria di Shakespeare vive il suo isolazionismo come punto di orgoglio, ma anche come condanna. L’invalicabilità dei suoi confini (punto cruciale durante il periodo dei bombardamenti hitleriani) è un punto di forza nazionale, ma anche un pericolo. La chiusura fa sì, infatti, che l’isola possa diventare culla ideale per malattie ad alto tasso infettivo che potrebbero esaurire la loro azione nel solo territorio di incubazione. Una malattia letale potrebbe, quindi, spostarsi liberamente per tutta l’isola e fermarsi in riva al mare mentre nel resto del mondo la vita potrebbe continuare tranquillamente (alla 28 giorni dopo, per intenderci). Di qui tutto il filone delle malattie infettive (si pensi a The fog di James Herbert che unisce al terrore del contagio la dimensione industriale dello smog e della nebbia) dalla quale sortiranno anche gli zombie di Romero.
È precisamente nel punto di incrocio tra queste due anime della fantascienza britannica che trova la sua naturale collocazione un film come Doomsday. Ed è proprio nella sua volontà di adeguarsi al rispetto quasi religioso per le sue radici di genere che troviamo il motivo di interesse e al tempo stesso il limite di quest’operazione.
Motivo di interesse perché Doomsday è davvero un frullato virtuale di quanto già visto ed esperito nel cinema (e nella narrativa catastrofica di questi ultimi anni). Sagra del deja vu, il film di Neil Marshall (apprezzato regista di Dog soldier e del claustrofobico The descent) mette in scena tutto quello che abbiamo conosciuto dal Carpenter delle due fughe (da New York e da Los Angeles, ma più il primo che il secondo) alle paure della pentalogia romeriana con il contagio che si diffonde senza che nessuno riesca a porre davvero un freno all’orrore sino all’idea della regressione ad uno stato di natura medioevale ed oscurantistico caro a tanta fantascienza non solo inglese.
Il regista incrocia tutti questi riferimenti senza porsi più di tanto l’obiettivo di approfondire in senso filosofico o sociologico i miti impliciti nella sua visione. Costruisce con ritmo invidiabile un racconto di grande efficacia in cui la riflessione viene lasciata in mano solo agli spettatori che proprio la vogliono tirar fuori a tutti i costi, mentre, tutti gli altri, possono limitarsi a portare a casa un film adrenalinico che coinvolge tutti i sensi ed appaga il bisogno di svago terrorizzato che tanto piace alla nostra società opulenta, ma sull’orlo del baratro.
Nel far questo, il regista, però, dimentica a casa l’ironia (trionfante solo nel rocambolesco finale che, altrimenti, sarebbe stato indigeribile) e così finisce per tenersi lontano anche da quel gusto post moderno che è, con buona pace di Tarantino, diventato l’alibi con cui si guarda al passato per mancanza di idee.
Due sono le relativa novità, rispetto ai modelli. La prima è il forte valore assunto dall’eroina che sostituisce, come in molto horror contemporaneo, il classico eroe maschile alla Jena Plissken (succedeva anche in The descent, film tutto al femminile). Mentre la seconda è riferita ai diversi modi in cui i contagiati immuni ricostruiscono una propria società: un medioevo rivisitato in chiave Metal per chi resta in città e un medioevo più letterale per chi si rifugia in campagna, tra i castelli. Due versioni che non nascondono un’anima romantica che sembra essere sfuggita alla maggior parte dei commentatori e che ci pare, invece, estremamente importante per comprendere il senso del lavoro.
Ma si tratta, in entrambi i casi, di novità solo relative che non giustificano la pervasiva mancanza di volontà autoriale stupefacente in un regista che, con le opere precedenti, sembrava volerci promettere qualcosa di più.


CAST & CREDITS

(Doomsday); Regia e sceneggiatura: Neil Marshall; fotografia: Sam McCurdy; montaggio: Andrew MacRitchie; musica: Tyler Bates; interpreti: Rhona Mitra (Eden Sinclair), Malcolm McDowell (Kane), Bob Hoskins (Bill Nelson), Alexander Siddig (John Hatcher), David O’Hara (Michael Canaris), Adrian Lester (Norton), Rick Warden (Chandler), Nora-Jane Noone (Read), Emma Cleasby (Katherine Sinclair), Martin Compston (Joshua); produzione: Crystal Sky Pictures, Intrepid Pictures, Moonlighting Films, Rogue Pictures; distribuzione: Medusa; origine: Gran Bretagna, 2008; durata: 105’


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