X

Su questo sito utilizziamo cookie tecnici e, previo tuo consenso, cookie di profilazione, nostri e di terze parti, per proporti pubblicit‡ in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di pi˘ o prestare il consenso solo ad alcuni utilizzi clicca qui. Chiudendo questo banner, invece, presti il consenso allíuso di tutti i cookie



DVD - Antonioni: Chung Kuo Cina

Pubblicato il 28 marzo 2008 da Alessandro Izzi


DVD - Antonioni: Chung Kuo Cina

Turista e viaggiatore: due realtà che fino ad una ventina d’anni fa avevano ancora sensi e identità distinte ancorché di difficile definizione.
Ancora al tempo della Beat Generation, nei mitici anni ’60 dei film on the road, del Wenders tedesco più aggressivo e delle Nouvelle Vagues, il viaggiatore era l’eroe capace davvero di sciogliersi nel paesaggio che lo circondava. Egli era colui che si abbandonava all’altro con l’estrema fiducia di chi sa che solo perdendo se stessi si può finalmente trovare un’essenza più profonda, una ragion d’essere più pregnante. Il viaggiatore era appunto questo: una persona capace di dimenticare se stesso per farsi alter, un individuo pronto a lasciare alle proprie spalle, quasi fosse un bagaglio troppo pesante per portarselo dietro, la propria cultura e di fondersi con il mondo. Sempre dentro al momento, eppure, al tempo stesso, sempre un po’ fuori. Da solo, ma con gli altri.
Il turista, in questa prospettiva, rappresentava, invece, l’orrore dell’omologazione da evitare. Perché non c’era niente di peggio dell’idea del branco di persone che aprono le bocche a comando di fronte ai più grandi monumenti, ma che bevono Coca Cola e mangiano hamburger anche dentro la Cappella Sistina.
Oggi come oggi, nella realtà del mondo come villaggio globale, il turista ha trionfato sul viaggiatore e l’ha fatto suo fratello. Ogni differenza è scomparsa e i filmini amatoriali dei turisti con figli a carico diventano sempre più simili ai film di viaggio. Herzog è un ultimo superstite di una specie in via di estinzione e Youtube è alle porte con la sua utopia di democratizzazione dell’immagine e del film.
Non così erano le cose quando la RAI trasmise per la prima volta per poi dimenticarsene (come troppo spesso fa la nostra televisione pubblica con le cose belle) il documentario di Michelangelo Antonioni Chung Kuo Cina.
Realizzato tra Zabriskie Point e Professione reporter, questo lungo documentario (quasi 260 minuti distribuiti in quattro puntate) è un momento appartato e di difficile definizione all’interno della compatta filmografia dell’autore italiano. In esso Antonioni, forse il più grande viaggiatore tra i misteri dell’animo umano che la storia del cinema non solo italiano abbia mai conosciuto, si è trovato costretto, da contingenze storiche e accidentali, a doversi confrontare con le ragioni del turista.
Due sono, infatti, le realtà contingenti alla realizzazione dell’opera, a far sì che lo sguardo del regista sia obbligato, quasi, a farsi per l’appunto turistico.
La prima è legata alla stessa destinazione del prodotto finale: la trasmissione, possibilmente in prima serata, del reportage (tale era, infatti, l’idea della produzione) sulla principale rete nazionale italiana. Ad obbligare l’occhio dell’autore entro binari preconfezionati è, quindi, la stessa produzione televisiva. Secondo la RAI, il film che Antonioni doveva scrivere non doveva essere solo uno spassionato diario di viaggio nella realtà cinese, ma doveva adeguarsi ai canoni di una normale trasmissione televisiva con una precisa vocazione didattico/informativa (ben esemplificata dall’intervento della voce fuori campo che molto spiega durante le varie puntate del documentario) con il rifiuto di soluzioni che potessero sbilanciare il film in una direzione troppo “artistica” e con l’adesione totale della macchina da presa al dato oggettivo (cosa sulla quale l’autore di Blow up, consapevole dell’impossibilità dell’immagine di farsi portatrice di dati incontrovertibili, riesce spesso miracolosamente a glissare).
La seconda realtà che spinge Antonioni verso il turismo audiovisivo è, invece, legata alle autorità cinesi che diedero il nulla osta alle riprese del documentario. Il governo cinese, infatti, ansioso di mostrarsi al mondo nella sua dimensione più progressista, scelse per il regista italiano e la sua troupe un ben preciso (e molto obbligato) percorso, illuminò per lui i set delle riprese (tra le quali non c’era certamente il Tibet di oggi) e attese paziente la fine delle riprese in vista di uno spot autocelbrativo di smisurate proporzioni.
Ma né la RAI né il governo cinese sembravano aver preso in considerazione il fatto che Anonioni fosse un viaggiatore e non un turista. Certo è evidente, dal modo in cui la voce fuori campo tenta di spiegare il mondo oggetto dello sguardo, che Antonioni arrivava in Cina senza saper molto della realtà che stava incontrando, ma, come era del resto lecito aspettarsi, dai suoi occhi non potevano certo uscire quei meri scatti di polaroid che i produttori avevano pensato e in cui avevano sperato.
All’imponenza del Palazzo proibito, meta ultima di tutto il turismo made in China, la macchina da presa del maestro preferisce i volti degli ignari visitatori che si mettono in posa per farsi fotografare. Nei loro sorrisi stereotipati il regista riconosce se stesso in un riflesso speculare. Come loro si muove in un mondo altro che non conosce. La differenza è che lui sa di non sapere e questo lo rende ricettore più onesto, più spassionato, più vero di quel mondo di cui riporta le impressione quasi la macchina da presa fosse un taccuino per degli appunti volanti. Così si spiega come mai ogni tanto la campagna cinese diventi quasi uno schizzo con macchie di colore, un’impressione fugace sulla tela. E così si spiega anche il motivo per cui tanto spazio viene dato alla ripresa (nella prima puntata) del parto cesareo fatto senza anestesia, col solo aiuto dell’agopuntura): è la sorpresa dello straniero che scopre quanto il proprio pregiudizio di occidentale borioso e tecnologico possa essere sbagliato.
La macchina da presa dell’autore abbandona così, in questo pregnante documentario, ogni volontà eccessivamente autoriale e si limita a registrare i dati, a constatare le cose, riportandole come appunti che si rifiutano di diventare romanzo. Solo così il viaggiatore riesce ad avere la meglio sul turista: riconoscendosi in esso e nei suoi limiti. E che ci sia riuscito è dimostrato dal fatto che la Cina rinnegò il film definendolo menzognero e la RAI lo dimenticò nei suoi archivi fino a poco tempo fa.

La qualità audio-video

Difficile il lavoro di recupero di Chung Kuo Cina. L’unico master del lavoro era, infatti, una sbiadita copia RAI molto resistente alla possibilità di un restauro sia pure solo digitale. La compressione del documentario è stata, quindi molto difficile, ma è stata portata avanti con coscienza e rigore. La stessa scelta di “spalmare” il film su due dischi rivela, da questo punto di vista, la volontà di limitare al massimo i segni della digitalizzazione. Se i colori sono slavati, se ci sono segni che funestano il fotogramma, questi non dipendono dal lavoro di compressione, ma dalle precarie condizioni del materiale di partenza. Da questo punto di vista non si può che essere soddisfatti della qualità del video. Bassa, ma il meglio possibile.
Buono, infine, l’audio che pare sempre, nel complesso piuttosto ben bilanciato.

Extra

Molto interessante il libro abbinato ai dvd con testi di Moravia, Parise, Rampini e Terzani. Dalle sue pagine emerge un ritratto interessante non solo della Cina, ma anche del fascino che essa ha saputo esercitare su viaggiatori e turisti occidentali. Sui dischi trova invece spazio solo un’intervista assai stimolante a Marco Bellocchio. Merita davvero la visione.


(Chung Kuo Cina); Regia: Michelangelo Antonioni; distribuzione dvd: Feltrinelli; collana: Real Cinema
formato video: 1.33:1; audio: Dolby Digital 2.0 (italiano) sottotitoli: italiano per non udenti

Extra: 1) Libro: La sindrome cinese 2) Intervista esclusiva a Marco Bellocchio


Enregistrer au format PDF