DVD - Cofanetto Marguerite Duras

Il cinema di Marguerite Duras segna, di fatto, il sostanziale trionfo della parola sull’immagine. I suoi film (molti ancora inediti in Italia, come i due proposti recentemente in questo pregevole cofanetto dalla Ripley Home video) sono dei veri e propri romanzi filmati. E non perché in essi la voce si limiti ad una mera lettura (sia pure interpretata secondo le regole di uno straniamento di stampo brechtiano) di un testo scritto, ma perché ad essere posta al centro delle strategie linguistiche di “messa in film” della storia non è la semplice narrazione improntata su un modello teatrale, ma la dimensione strutturale del linguaggio romanzesco tutto.
Le pellicole della Duras, insomma, sono prima di tutto film su romanzi intenti a riflettere su loro stessi, sulle proprie strategie comunicative, sul loro modo, tutto peculiare, di “essere” libro.
Cristalli fini di adamantino nitore, i lavori della regista francese segnano, di fatto, il trapasso della parola da Segno grafico a Voce. Il romanzo, ricondotto alla sua struttura attanziale più pura (come avviene in un po’ tutto il Nouveau Roman) con il mero accostamento dei personaggi con le loro azioni e l’estrinsecazione senza mezzi termini e senza gli infingimenti psicologici del romanzo ottocentesco, della loro funzione nel corpo della narrazione si traduce in immagini (che tendono alla stasi della fotografia pura e semplice) e suoni (che si accorpano tutti intorno al nucleo pulsante del Verbo).
Nel caso di India song è la frattura tra le due componenti del linguaggio filmico a determinare il senso ultimo della strategia comunicativa dell’opera. Più che di un film audiovisivo si dovrebbe parlare per questa pellicola di un vero e proprio lavoro audiodivisivo in cui voce e personaggi si trovano isolati su piani distinti anche se non reciprocamente impermeabili. Da una parte ci sono le immagini di persone che si aggirano come spettri in stanze la cui profondità è spesso raddoppiata dalla presenza di ampi specchi. Dall’altra ci sono le voci (quattro) di personaggi che non ci è dato di vedere (la Duras stessa le definisce delle voci senza viso) la cui funzione non è quella di intervenire nel racconto quanto piuttosto quella di commentarlo, di farlo oggetto di una riflessione. Questi due piani restano perennemente isolati l’uno rispetto all’altro, sono due facce di una stessa medaglia.
In questo modo ai protagonisti della storia non è data possibilità di esprimersi attraverso la loro voce. Essi sono di fatto puri corpi imprigionati, dai limiti dell’inquadratura, all’interno della loro funzione sociale (di qui la vena politica del discorso) e della loro funzione narrativa (di qui l’espressione della loro logica metacomunicativa). La macchina da presa li isola come protagonisti assoluti di una storia di cui non riescono ad essere davvero artefici (in franca espressione del pessimismo esistenziale della scrittrice), ma che devono (e)seguire perché così è voluto da qualcuno che resta più grande di loro. Il loro destino è tutto nella volontà dell’autore contro la quale non è possibile alcun tipo di rifiuto. La Duras è il dio demiurgo che, attraverso la parola del coro delle quattro voci (ad un tempo personaggio e luogo di espressione del pensiero dell’Autore), li evoca e li condiziona ad un tempo.
La frattura tra voce e corpo (e, quindi, tra suono ed immagine) diventa, comunque, espressione di un’intera condizione esistenziale che è quella dell’ambasciatore costretto a vivere in un paese che non è il suo. Così Acusma senza corpo e corpi senza voce rivendicano ad ogni passo una perdita di senso irreversibile. Lo spazio ambiguo dell’ambasciata, che non è più l’India che preme fuori le mura, ma non è neanche la Francia da cui tutti i personaggi provengono, diventa luogo ideale per la storia di uno scacco esistenziale profondo che resta comunque indifferente a quello che è il vero dramma non detto del film: la storia di una Calcutta piagata da povertà e sofferenza. Un paese che non ha volto (neanche nelle parche panoramiche che non creano alcuno spazio intorno al palazzo dell’ambasciata), né parola, ma che vive tutto nel canto della mendicante che supera d’un sol colpo le mura e s’impone troppo brevemente sul mondo e sulla storia.
E la musica, fatta rumore, è il tappeto sonoro di Baxter, Vera Baxter il secondo titolo ospitato nel cofanetto.
La funzione della musica nell’economia del film è, come in India Song, la definizione di un mondo esterno a quello dei protagonisti della vicenda. Questa volta, però, il film fissa con maggior intensità il proprio cuore poetico nella figura della protagonista (volontà rintracciabile già sin dal titolo).
La storia, che ruota intorno al desiderio del marito di Vera di condividere con un terzo il corpo della moglie in una precisa vocazione ad un adulterio il cui scopo è quello di introdurre nuovi brividi erotici all’interno dell’altrimenti troppo prevedibile realtà coniugale, rivela la stessa tensione del film precedente ad un racconto quanto più possibile minimale. Il problema è che Vera è un personaggio che ha fatto della fedeltà la propria ragion d’essere. La protagonista diventa, quindi, una sorta di “anima divisa in due” tra il desiderio di compiacere il marito e la consapevolezza che questo desiderio va ad urtare con la sua essenza più intima. Anche per questo Vera, come già i protagonisti di India song seppur per motivi apparentemente diversi, vive tutta in un disperato anelito di morte.
La musica, che scorre uniforme da un altrove inattingibile quasi ad indicare un’altra possibilità di vita fuori dalle mura domestiche, diventa, in questo modo, l’unica cosa ancora in grado di tenere in vita la donna, l’ultima ragion per voler ancora “essere”. Essa assolve, quindi, la stessa funzione coreutica del quartetto di voci del film precedente: è espressione della volontà creatrice dell’Autore che si impone su un personaggio che, altrimenti, si spegnerebbe nella sua tensione ad una dolente cupio dissolvi.
Anche se si riducono le tensioni più scopertamente politiche che erano presenti invece in India song, Baxter, Vera Baxter (in cui il nome personale è significativamente schiacciato dalla ripetizione del cognome del marito), la pellicola si impone comunque come un ritratto impietoso della borghesia più abbiente. E come tale va ricordato.
La qualità audio-video
Tutti e due i film si avvalgono di un riversamento piuttosto curato che riesce a rendere giustizia alle intenzioni della regista. Baxter, Vera Baxter è, probabilmente, tra i due, il film meglio compresso anche perché la fotografia di Sacha Vierny, fredda nei suoi colori “indifferenti” e brillanti, è sempre piuttosto luminosa e mancano quindi, all’interno della pellicola, sequenze di troppo difficile digitalizzazione. Al contrario India song, film più cupo e spesso notturno, in alcuni momenti sembra soffrire un po’ del suo passaggio su disco. Eppure il lungo piano sequenza iniziale col sole che tramonta dietro indifferenti colline ci pare ritrovare tutte le suggestioni della proiezione in sala.
Una sola è l’opzione audio (i film non sono mai stati doppiati): un mono riproposto con filologica cura. Pulito e nitido come meglio non si potrebbe.
Extra
Un booklet di sedici pagine che raccoglie alcune dichiarazioni di Marguerite Duras sicuramente interessanti. In altre occasioni avremmo detto che è un po’ poco, ma qui è lo stesso cofanetto, nella preziosità della proposta, a fare extra di se stesso.
(India Song); Regia: Marguerite Duras; interpreti: Delphine Seyrig, Michael Lonsdale, Mathieu Carrière, Claude Mann;
(Baxter, Vera Baxter); Regia: Marguerite Duras; interpreti: Delphine Seyrig, Noëlle Chatelet, Claude Aufaure, Claudine Gabay, Gérard Depardieu
formato video: 1.33:1 (India song) e 1.66:1 (Baxter, Vera Baxter); audio: francese 1.0; sottotitoli: italiano; distribuzione dvd: RHV
Extra: Booklet di 16 pagine
