DVD - Fur

Il paradosso inesplicabile del film di Shainberg su Diane Arbus è nel suo modo ambiguo di intrecciare i continui rimandi iconografici di cui è naturalmente sostanziato.
Contrariamente a quanto ci saremmo aspettati, infatti, il regista non sembra cercare possibili riferimenti visivi al corpus dell’opera della geniale fotografa americana di cui sta raccontando la vita. Se allusioni ci sono ad altri modi di inquadrare il reale essi sono, invece, tutti da ricondurre all’interno del ’mondo Cinema’. Fin dall’inizio, quindi, la pellicola di Shainberg più che dichiararsi come ’studio’ sul lavoro di una delle artiste più innovative del secolo scorso, sembra essere, piuttosto, un esercizio sulle potenzialità del mezzo cinematografico, un caleidoscopio di riferimenti a film e opere di diversa provenienza.
Non si trova traccia, quindi, se non per fugaci cenni tutti posti intorno al finale dell’opera, dello sguardo impietoso eppure empatico della Arbus. Non c’è il suo bianco e nero rivelatore che era ancora molto sgranato e quasi accidentale fino al 1962 (sono tutte foto realizzate con una Leica) e che poi era diventato vivamente oggettivo grazie all’uso di macchine 6x6 come Rolleiflex o Mamiya e all’impiego (successivamente imitato da troppi) di un flash a diffusione che faceva spiccare i soggetti dal loro sfondo naturale. Anche il formato panoramico adottato dalla pellicola (che pure rinuncia alle lusinghe dell’ampio orizzonte dello scope) non ha nulla a che vedere con il ’medio assoluto’ delle foto quadrate e sempre stampate full frame della Arbus che sembrava ricercare, nella perfetta armonia di un quadro puro, lo spazio di una ’rivelazione’. Nel film, infine, che nell’immedesimarsi e farsi tutt’uno con lo sguardo della sua protagonista trova la sua più vera ragion d’essere, ci sono è vero molte soggettive (forse un po’ meno dell’abuso che riscontriamo nella costante pratica del biopic), ma non c’è quasi mai quello sguardo in macchina che è espressione di un rapporto, di uno scambio di emozioni tra fotografo e fotografato che, per la Arbus, era reso possibile dall’impiego non invasivo di un obiettivo a pozzetto (quello che costringe il fotografo a tenere il capo chino alla macchina mentre scatta e che lascia l’impressione di non guardare direttamente verso il soggetto fotografato che può sentirsi così, maggiormente ‘protetto’). Di sguardi, certo, ce ne sono molti nel film, ma essi sono sempre altrove, raramente verso lo spettatore che, per questo, non si sente mai direttamente interpellato dal film.
Viceversa il film impiega, nella propria messa in immagine, colori anche sin troppo patinati che vogliono essere più che una restituzione del modo di vedere della fotografa, un corrispettivo visivo del mondo borghese e falso nel quale ella ancora vive. E tutto lo sforzo della pellicola è impiegato nella narrazione del momento fatidico in cui la Arbus matura la sua vocazione artistica. Si ha come l’impressione che il film voglia essere un’istantanea del momento cruciale in cui Diane cessa di essere donna (borghese, viziata ancorché insoddisfatta) e diventa fotografa (maledetta e presto rifiutata proprio da quel mondo dal quale proviene). Il tutto, a livello narrativo, nella cronaca del lungo corteggiamento della sua prima fotografia, nella narrazione spassionata (e anche abbastanza riuscita) di quel rapporto tra soggetto osservante ed oggetto osservato che è peculiare del suo modo di fotografare l’’altro’.
A livello visivo, però, come dicevamo i riferimenti sono altri. E non tanto e non solo il Freaks di Tod Browning che tanta parte ebbe nella maturazione personale della fotografa (di Freaks ci sono i personaggi, non il modo in cui sono stati filmati dal regista) quanto piuttosto Lynch e Kubrick.
Di Lynch c’è la fascinazione per gli spazi geometrici ed onirici del palazzo, per le tubature che restituiscono suoni ambigui, organici e che invitano, restituendo una chiave, ad un’esplorazione carroliana in un nuovo paese delle meraviglie.
Di Kubrick (che omaggiò la Arbus con l’immagine delle due gemelline diaboliche di Shining) c’è un certo uso della luce che spesso sembra trasformare le scale in una sezione staccata dell’Overlock hotel. Senza dimenticare che Nicole Kidman viene direttamente da Eyes wide shut.
E Lynch e Kubrick sono, forse, i due autori che più hanno attinto in suggestioni e affinità di sguardi dall’opera della fotografa americana. Di qui si capisce come i riferimenti prediletti del regista non siano quindi la Arbus, ma la Arbus così com’è stata guardata dal cinema.
Peccato, allora, che il film non abbia saputo rinunciare ad una narrazione al fondo troppo classica e che non abbia saputo sottrarsi al ricatto del film cucito a misura di divo. Ne sarebbe venuta fuori un’opera ben altrimenti valida.
La qualità audio-video
Più che discreta la qualità del riversamento che, basandosi su un master molto giovane e pulito, garantisce una visione sempre piacevole anche nei punti più critici (le molte scene notturne). I neri sono profondi e il rapporto tra sfondi e figure è ben equilibrato.
Buono anche il suono che si avvale di due codifiche (entrambe 5.1) una per l’originale, l’altra per il doppiato italiano. Non ci sono reali differenze tra le due tracce.
Extra
Sono gli extra la vera nota dolente di questo prodotto. Il dvd proposto dalla Mondo Home Enterteinment è, infatti, a dir poco basico: solo il film e un paio di trailer la cui visione è, oltretutto, obbligata non appena si inserisce il disco.
Inutile dire che una galleria fotografica, generalmente un contributo abbastanza superfluo in un dvd, avrebbe avuto, in questo caso, un valore più che notevole.
Leggi anche la recensione al film per l’uscita in sala.
(Fur); Regia: Steven Shainberg; interpreti: Nicole Kidman, Robert Downey jr, Ty Burelle, Harris Yulin; distribuzione dvd: Mondo Home Entertainment; formato video: 1.85:1; audio: italiano e inglese dolby digital 5.1; sottotitoli: italiano per non udenti.
Extra: 1) Trailers vari
