DVD - Non c’è pace tra gli ulivi

Brecht e Hollywood si prendono per mano in Non c’è pace tra gli ulivi, terzo pannello di un’ideale trilogia desantisiana sugli umiliati e gli offesi iniziatasi qualche anno prima con Caccia tragica e proseguita, poi, con Riso amaro che è, forse, il film che meglio di tutti è riuscito a sintetizzare e a compattare le molte istanze del narrare del regista di Fondi.
La concezione spettacolare e tutta americana del cinema come fabbrica di miti e di eroi convive, quindi, non senza contraddizioni (ma di quelle contraddizioni che sanno farsi anima di un discorso ed espressione di un pensiero non pacificato) con l’idea di un antispettacolo di matrice squisitamente teatrale e con il rifiuto per un’immedesimazione di superficie nella storia e nei personaggi messi in scena.
De Santis, insomma, insegue, in questo come negli altri suoi film, due direzioni tra loro apertamente antiteche. Da una parte, fedele ad un’idea di grandeur quasi wagneriana, costruisce per il proprio pubblico delle storie caratterizzate da un forte impatto spettacolare e popolate da personaggi di impressionante levatura tragica e drammaturgica. Dall’altra non rinuncia a voler rintracciare all’interno dei suoi racconti alcuni snodi esemplari che possano prestarsi ad una precisa azione didattica nei confronti di quello stesso pubblico. Il regista di Fondi vede, infatti, nei suoi protagonisti massicci e granitici, arcaici e passionali, un riflesso assai poco distorto della situazione italiana del secondo dopoguerra tra urgenza di ricostruzione e adesione a tradizioni regionali che si oppongono al libero avanzare del progresso. Le dinamiche interpersonali, i rapporti di forza e di affetti che legano tra loro i vari personaggi o che, più facilmente, li mettono in urto reciproco, non definiscono solo dei meri conflitti individuali, ma sono anche espressione di una lotta di classe in atto, hanno una precisa ragion d’essere che non è solo psicologica, ma che è anche sociale.
In Non c’è pace tra gli ulivi, quindi, la storia del contadino che, rientrato dalla guerra, scopre che tutto il suo gregge di pecore gli è stato rubato da un ricco borghese e decide di farsi giustizia da solo, è solo il punto di partenza per la costruzione di un nitido edificio tragico coi suoi personaggi schiacciati dal fato, e, al tempo stesso, è il luogo ideale per la rappresentazione in chiave mitica di precise dinamiche sociali e finanche politiche. Ogni persona, nel film, quindi, vale per sé, ma anche come espressione della propria classe sociale d’appartenenza.
L’intero meccanismo narrativo finisce, così per ruotare tutto intorno al limpido binomio di sesso e possesso visti entrambi come elementi di sopraffazione ad un tempo personale e sociale. La supremazia di un individuo sugli altri, in altre parole, non si conta solo in base al numero di pecore possedute o alla quantità di ettari di terreno acquistati, ma anche in base alla capacità di gestire i rapporti con l’altro in chiave di sopraffazione o controllo sessuale. Non è un caso che ad un furto di pecore (Francesco, in effetti, non sta rubando dei capi di bestiame, ma sta semplicemente recuperando il gregge che gli era stato tolto) si risponda dapprima con uno stupro e poi con un’azione legale. Il sesso diventa così, nell’economia complessiva del discorso, uno strumento di definizione sociale e tutto il senso della sfida (quasi western) che si viene a costruire all’interno della pellicola è al tempo stesso legata al bisogno di una rappresentazione brechtiana della società, ma è anche l’arcaica messa in scena di un combattimento a due, pulsionale ed istintivo, per definire chi tra i combattenti sia il vero maschio dominante.
Di qui il formarsi di due coppie contrapposte. La prima, quella formata da Augusto Bonfiglio, il ricco possidente, e Maria Grazia, sorella del protagonista dapprima violentata e poi amante succube dell’uomo, è una coppia fondata su principi di violenza e controllo destinati a sfaldarsi di fronte alla minaccia delle armi. La seconda, quella formata da Francesco e Lucia (quest’ultima obbligata al matrimonio proprio con Augusto) è, invece, frutto di una mutua scelta e diventa espressione metaforica di una sorta di amore rivoluzionario destinato a trionfare sulle avversità.
I due modelli di sessualità messi in scena divengono così espressione di una visione più ampia. Per De Santis la logica puramente possessiva del sesso così come è esemplificata nel personaggio di Bonfiglio è espressione di un sistema relazionale sul quale si fonda anche il rapporto servi/padroni. Questo sistema capitalista è tanto più detestabile quanto più appare, al confronto, desiderabile la realtà di Francesco fondata, invece, sul rispetto, ma anche sulla cooperazione (il personaggio diventa, a fine film, il punto di riferimento di tutti i contadini che si uniscono alla sua lotta nell’utopica speranza di una società migliore).
E’ a questa realtà che il regista affida il suo messaggio più forte e la sua speranza più grande. E lo fa componendo un film di grande efficacia drammatica, populistico negli intenti (didattici) e nella forma (i riferimenti ai grandi generi cinematografici come il già citato western), ma raffinato nella sua strutturazione a più livelli di lettura. Su queste basi, ed anche grazie all’impiego del panfocus che permetteva una profondità di campo fino a quel momento sconosciuta nel cinema italiano, De Santis costruisce un affresco di paesaggi riarsi dal sole popolato da vere e proprie statue parlanti che ci obbligano a fare i conti con il come eravamo e sul come, in fondo, considerando lo stato di salute della nostra classe politica, siamo ancora.
La qualità audio-video
Il film si avvale di un restauro digitale che restituisce al bianco e nero di De Santis la sua incredibile carica plastica e i suoi profondi contrasti. L’immagine, ripulita dai segni dell’usura e del tempo, ritorna, così, a nuova vita e si offre al pubblico dei cinefili come il migliore dei regali. A godere i principali benefici del restauro è proprio il rapporto tra figure e sfondo che ritrova quella profondità che in parte si era persa con il passare degli anni. Il film, ottimamente compresso su disco, si avvale del corretto formato 4/3.
Buona anche la resa audio del film con una sola traccia Mono pulita e priva di fruscii.
Extra
Sono gli extra il vero punto debole dell’edizione. Certo il film è molto vecchio e, pur nella sua riconosciuta importanza storica, non ha goduto della fortuna critica di altri titoli del regista, ciò nondimeno ci pare che il pacchetto offerto dalla Cristaldi film sia un po’ troppo povero.
Interessante la breve intervista a Marco Grossi, studioso di cinema e segretario dell’Associazione De Santis di Fondi che ripercorre le tappe salienti della realizzazione del film e l’accoglienza che esso ha avuto presso pubblico e critica.
Del tutto accessorie, invece, le schede filmografiche che rubano spazio prezioso sulla superficie del disco.
Solo per addetti, infine, il breve speciale Dopo il restauro. Opzionando questa voce sul vostro lettore avrete modo di confrontare le immagini del film prima e dopo le correzioni digitali. Un tributo senz’altro giusto e necessario al lavoro dei tecnici, ma a cui sarebbe stato opportuno affiancare almeno un’intervista o uno straccio di spiegazione.
(Non c’è pace tra gli ulivi); Regia: Giuseppe De Santis; interpreti: Lucia Bosè, Raf Vallone, Dante Maggio, Folco Lulli, Maria Grazia Francia; distribuzione DVD: Dolmen
formato video: 4/3 1.33:1; audio: italiano Mono; sottotitoli: italiano per non udenti
Extra: 1) Dopo il restauro - confronto 2) Filmografie 3) Intervista a Marco Grossi, studioso di cinema e segretario dell’Associazione Giuseppe De Santis
