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DVD - The garden of Eden

Pubblicato il 28 settembre 2008 da Alessandro Izzi


DVD - The garden of Eden

La vera, unica ed assoluta protagonista di The garden of Eden è una canzone. Affermazione paradossale visto che il film di cui stiamo parlando è muto!
Il paradosso dal quale partiamo per parlare di questa breve, ma brillante commedia sofisticata, è, comunque, ad onor del vero, più apparente che reale. Perché ci pare assolutamente innegabile che il cinema muto sia sempre stato, sin dalle primissime proiezioni dei film dei Lumiere, in qualche modo irretito dalle potenzialità espressive della musica. I grandi pionieri dell’arte cinematografica, infatti, hanno sempre flirtato con le potenzialità del linguaggio musicale. Probabilmente perché avvertivano, nella logica della successione delle immagini, nell’alternarsi dei volumi, nel ritmico accavallarsi dei bianchi e dei neri, un qualcosa di profondamente imparentato con l’impressione musicale, con l’emozione dell’ascolto. Musica e Cinema sono entrambi arti del Tempo, si muovono nella durata prima ancora che nello spazio o sulle superfici. E la loro affinità non si esaurisce solo in questa similarità di fruizione, ma va oltre e si estrinseca nella capacità di influire sulla soglia di coscienza della persona che ascolta un brano o vede un film. Il cinema, infatti, ci libera dal giogo dello scorrere indifferente del tempo mediante la sospensione di coscienza imposta allo spettatore. Allo stesso modo il melomane, immerso nel principio del godimento del brano musicale che sta ascoltando, si svincola dal tempo fattuale ed entra in una dimensione “altra” del tutto estranea al rigido ticchettare delle lancette di un orologio. In entrambi i casi una parte molto razionale del nostro cervello sospende la sua azione e noi viviamo la nostra percezione a metà tra il sonno e la veglia.
Alla luce di queste brevi considerazioni non deve stupire che nel cinema muto abbondino omaggi alla musica. Ruttman numerava i suoi studi avanguardistici quasi fossero opere di catalogo di un compositore. E il suo capolavoro su Berlino reca come sottotitolo Sinfonia di una grande città. Allo stesso modo il Nosferatu di Murnau è una vera e propria Sinfonia dell’orrore.
The garden of Eden è, più modestamente una piccola sonata a quattro con due violini (i giovani protagonisti giustamente innamorati e destinati al matrimonio) e due bassi (l’anziana amica di lei e il non più giovane zio di lui che hanno per lo più la funzione di raddoppio delle parti sopranili).
La trama è solo un pretesto per l’esercizio tutto musicale della regia. Toni LeBrun lascia Vienna per seguire la sua vocazione di cantante lirica. Raggiunta Budapest, dove le era stato promesso un contratto in un teatro d’opera, si trova di fronte alla realtà di un mero lavoro come soubrette in un varietà con pochissimi veli. Incapace a rinunciare ai suoi sogni scappa via portandosi dietro Rosa, una povera sarta di scena che è, però, anche una baronessa caduta in disgrazia dopo la guerra. La donna, incapace a dimenticare i passati fasti del suo rango, ha un modo tutto peculiare di condurre la propria esistenza: lavora per undici mesi l’anno nelle condizioni più misere e passa l’ultimo mese a sperperare i soldi messi faticosamente da parte in un albergo di lusso. È proprio qui che Rosa porta la povera Toni. Ed è qui che la ragazza conoscerà l’amore e poi il matrimonio.
La trama estremamente lineare e al fondo risaputa, di questa commedia, si presta già da sola a possibili sviluppi musicali. Intanto è limpidamente musicale già la disposizione dei personaggi sullo scacchiere attanziale: la coppia di giovani innamorati, la coppia di anziani aiutanti, il coro della famiglia di lui contro il vuoto di quella di lei ecc. I protagonisti si muovono sulla superficie dello schermo eseguendo un vero e proprio balletto di situazioni narrative che non possono che condurre all’esito scontato del matrimonio finale. Le funzioni attanziali non sono rigidamente fissate al punto che si assiste a musicali glissando che spostano i personaggi da una casella ad un’altra. Rosa, infatti, è all’inizio solo la sarta del teatro che dovrebbe segnare la rovina della protagonista ed è, quindi, aiutante dell’oppositore (incarnato nella figura femminile dell’impresario del teatro di varietà). Allo stesso modo lo zio del protagonista maschile è, all’inizio, innamorato di Toni e, quindi, rivale dell’eroe e solo in un secondo momento passa nella posizione di aiutante dello stesso. Ugualmente un secondo zio dell’eroe, che aveva conosciuto Toni come ballerina da night club e che potrebbe rivelare il passato poco chiaro della fanciulla, si rivela alla fine il vero e proprio deus ex machina che permette il lieto fine risolutore. La figura di quest’ultimo personaggio amplifica le ambiguità del discorso dal momento che funge sia da doppio dell’antagonista (è all’inizio in coppia con l’impresario del teatro nella bipolarità di maschio/femmina) sia da riflesso dell’altro zio (libertino lui tanto quanto era rigidamente militare l’altro).
I personaggi, ed è il caso di sottolinearlo, cambiano il loro statuto attanziale non per una precisa evoluzione psicologica, ma per seguire l’intenso andamento musicale dell’intreccio. Non c’è traccia di rimpianto nello zio che perde la donna che pure dice di amare (e la vede, oltretutto finire nelle braccia del nipote) come non c’è contraddizione in Rosa tra l’essere sarta e baronessa seppure in momenti diversi. La trama si svolge senza gli impacci del racconto psicologico e i personaggi cambiano funzione nello stesso modo con cui un tema può essere modulato da una tonalità ad un’altra.
Tutto, infine, ruota intorno alla metafora della canzone d’amore (quella che l’amante scrive per la sua amata e che viene intonata indifferentemente dai due corteggiatori di Toni). Ed è proprio la canzone a fare da cerniera tra la prima parte del film (quella realistica) e la seconda (la favola con tanto di happy ending). In realtà ad essere contrapposti sono due mondi che, ad uno sguardo più attento, si rivelano ugualmente ingannevoli: il mondo fatuo del teatro e quello non meno convenzionale della buona società. Tra i due c’è solo lo sguardo sognante di Toni che ascolta la canzone cantata per lei dall’uomo amato quasi a dire che a fronte di tante falsità solo l’amore vero (quello che a fine film lascerà l’intera famiglia fuori della camera da letto) può trionfare.
L’amore e, aggiungiamo noi, la Musica, perché in questa breve sequenza riesce a Milestone il miracolo di visualizzare per noi una canzone che non possiamo ascoltare. Attraverso gli occhi velati di lacrime della protagonista, il regista ci impone lo stesso tempo sospeso e sognante dell’ascolto musicale. Non sentiamo neanche una nota di questo brano risolutore, ma ne conserviamo negli occhi, per sempre, l’esperienza.

La qualità audio-video

Piuttosto buono il lavoro di recupero di questo film. Il bianco e nero dell’originale ritrova, infatti, su dvd quasi tutta la sua plasticità e profondità. Il quadro è quasi sempre pulito e la visione scorre via piacevole senza che si palesino troppi artifici da compressione.
Buono anche l’audio con una colonna sonora perfettamente in linea con le esigenze drammatiche della pellicola.

Extra

Alcuni contributi scritti di un certo interesse.


(The garden of Eden); Regia: Lewis Milestone; interpreti: Corinne Griffith, Louise Dresser; distribuzione DVD: Ermitage
formato video: 1.33:1; audio: Italiano Dual Mono; didascalie: Inglese; sottotitoli: Italiano

Extra: 1) Biografia e curiosità su Lewis Milestone 2) Sinossi, note e curiosità inedite sul film 3) Biografia e Filmografia di Corinne Griffith 4) La commedia sofisticata


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