X

Su questo sito utilizziamo cookie tecnici e, previo tuo consenso, cookie di profilazione, nostri e di terze parti, per proporti pubblicit‡ in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di pi˘ o prestare il consenso solo ad alcuni utilizzi clicca qui. Chiudendo questo banner, invece, presti il consenso allíuso di tutti i cookie



La memoria dell’acqua

Pubblicato il 8 maggio 2016 da Matteo Galli
VOTO:


La memoria dell'acqua

L’impaginazione del festival invita ai confronti. Al film di Malick fa seguito lo stesso giorno l’unico documentario in concorso, El bóton de nácar (Il bottone di madreperla) di Patricio Guzmán che di Malick è quasi coetaneo. Si tratta in entrambi i casi di due film allegorici con la differenza che mentre l’allegoria di Malick si perde in una voluta genericità di stampo filosofico-religioso nel caso di Guzmán l’allegoria è assolutamente decifrabile, fin troppo decifrabile, decisamente didascalica. Nei termini classici dell’allegoria: alla pictura (e in entrambi i casi la pictura è semplicemente meravigliosa) nel caso di Malick non fa seguito alcuna plausibile subscriptio, nel caso di Guzman la subscriptio è dichiarata, reiterata. E dire che il film di Guzman, sia sul piano iconico che su sul piano metafisico, parte in fondo come il film di Malick, ma poi man mano che prosegue si trasforma in un film etno-antropologico da National Geographic o Festival dei Popoli e nella parte conclusiva approda a un film di denuncia alla Ken Loach, tornando a trattare quello che da sempre è il grande tema di Guzmán, ossia la (recente) storia del Cile, il golpe, la dittatura. Ciò ne costituisce la ricchezza – straordinaria – ma anche, forse, i limiti, perché si viene guidati attraverso tutti ma proprio tutti i passaggi, alcuni dei quali anche leggermente forzati, esposti dalla voce over e off del regista stesso che serve ad autentificare tutto il film con la forza di una testimonianza individuale, etica, politica.
La prima parte ha inizio con la lunga inquadratura di un blocco di quarzo antico di 3000 anni rinvenuto nel deserto cileno di Atacama e introduce il grande tema, fisico e metafisico dell’acqua, della relazione dell’acqua con gli individui e col cosmo, con inquadrature di pianeti, comete e nebulose. L’obiettivo si restringe e si arriva al Cile, alla sua originalissima geografia, è il paese più lungo al mondo con 4300 km di lunghezza e con una larghezza media di soli 180 km, un paese, ci dice il regista, impossibile da raffigurarsi in un’unica carta geografica, alle pareti delle aule scolastiche di quand’era ragazzo la cartina era divisa in tre parti, il nord, il centro e il sud, ciò che viene esemplificato da una splendida e lunghissima pergamena che viene srotolata e alla fine del film riarrotolata su di un pavimento e che la macchina da presa può raffigurare solo con un lungo carrello all’indietro (e poi in avanti). È sulla zona meridionale che il film si concentra e sulle popolazioni indigene che l’hanno abitata, appartenenti a cinque tribù diverse. Con i pochi superstiti di una di queste cinque tribù Guzmán conduce alcune interviste volte a raccontare la loro assoluta, immediata dimestichezza col mare – in stridente contrasto coi cileni che, afferma Guzmán, col mare hanno un rapporto tutt’altro che risolto, malgrado i 4000 km di costa -le loro vicende autobiografiche, a segnalarne le peculiarità linguistiche, una lingua che non conosce la parola dio, una lingua che non conosce la parola polizia. In queste parti il film è molto tradizionale e anche leggermente ripetitivo. Il punto di svolta nella vita delle popolazioni indigene è l’arrivo dei coloni bianchi negli ultimi decenni dell’800, ciò che porta a un silenzioso – perché ancora poco studiato - ma efficace sterminio, alla loro sparizione, raccontata attraverso una serie di strazianti dissolvenze incrociate con le piroghe che appaiono e scompaiono sul mare. È qui che entra nel film appunto il termine “desparacidos”, parola che funge da trait d’union con la storia recente del Cile (questo, per esempio, è un passaggio un po’ forzato). L’ultima parte del film ricostruisce, da un lato tramite alcuni testimoni e dall’altro tramite una sorta di agghiacciante re-enactement delle pratiche attuate per fare sparire i detenuti politici, precipitandoli in mare dagli elicotteri, le vicende politiche, su cui Guzmán non ha mai smesso di ragionare, producendosi in un lavoro documentale e memoriale che nel suo paese non ha eguali. E anche altrove ne ha pochi. Più che un documentario la pellicola è un film saggio che delinea un arco poderoso fra geografia, metafisica, storia e politica.


CAST & CREDITS

(El botón de nácar); Regia: Patricio Guzmán; fotografia: Katell Dijan; montaggio: Emanuelle Joly; produzione: Atacama Productions-Parigi; origine: Francia-Cile-Spagna, 2015; durata: 82’.


Enregistrer au format PDF