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Elizabeth: The golden age

Pubblicato il 20 ottobre 2007 da Alessandro Izzi


Elizabeth: The golden age

Il primo Elizabeth culminava con una scena tragica e dolente che costituiva, in fondo, il vero cuore poetico dell’intera operazione. Si trattava dell’ultima “vestizione” della Regina Vergine. La protagonista del film, rinunciando definitivamente al suo essere donna prima ancora che monarca, indossando consapevolmente gli abiti impostegli dall’etichetta e coprendo il suo volto già pallido con un pesante strato di cerone, accettava di “farsi” statua, di trasformarsi in incarnazione secolare, viva e marmorea al tempo stesso, del Potere. Tutto il film era la storia di questo passaggio epocale, di questa metamorfosi quasi ovidiana da donna in emblema. Non più viva per se stessa, Elizabeth si offriva allo sguardo degli altri. Il prezzo della sua libertà (non accettava marito, non aveva figli, si dichiarava vergine) era il peso insostenibile del dover essere per se stessa. Tra lei e il pubblico sussisteva un vetro che, da una parte la proteggeva dal male facendola oggetto di ammirazione, dall’altro la trasformava in icona da guardare e in modello da imitare. Soprattutto quel vetro divideva. L’estrema libertà coincideva, così, con l’estrema solitudine e tutto il dolore della trasformazione era restituito, nella pellicola di dieci anni fa, dai gesti estremamente rituali con cui avveniva quest’ultima vestizione.
In Elizabeth – The golden age le vestizioni sono addirittura tre a segno di una maggiore complessità del personaggio.
La prima è quella ancora rituale della preparazione alla battaglia, quando Elizabeth indossa quella scintillante armatura con cui dovrà incitare le truppe ad una guerra già persa in partenza. È l’idea della Regina guerriera, fiera ed indomita.
La seconda vestizione è più privata, invisibile com’è per gli altri personaggi del film, ma non per questo meno mitica. È la lunga veste bianca, ornata, alleggerita da strascichi apparentemente infiniti, che la regina indossa nottetempo quando il vento comincia a girare a favore dell’Inghilterra. È la tunica svolazzante con cui raggiunge la scogliera dalla quale contemplare, vittoriosa, la disfatta dell’Invincibile Armada spagnola. Una veste che non si oppone al vento come fa la fiammella di candela che Filippo secondo di Spagna identifica nelle fede cattolica (fiammella naturalmente destinata a spegnersi al suo primo soffio), ma che lo asseconda, che lo rende visibile allo sguardo. Siamo di fronte all’icona della Regina Vincente, l’immagine della prediletta dagli dei e di colei che veramente sembra in grado di poter controllare gli elementi.
La terza vestizione, quella finale, è quella della Regina Madre, una versione laica della Madonna genitrice di tutti gli uomini. Con la sola differenza che lei non ha perso un figlio sulla croce per la semplice ragione che un figlio non l’ha mai avuto.
E l’immagine della Regina madre è l’allusione necessaria al futuro di prosperità e ricchezza che aspettano l’economia inglese dopo il tracollo della potenza spagnola e il conseguente inizio della fine dell’inquisizione. La Regina madre non ha figli non perché infertile, ma perché fa dono della sua fertilità mitica al suo popolo.
Queste le Elizabeth che canta Shekhar Kapur in The golden age. Non una sola donna, a dirla tutta, ma una sorta di figura trinitaria molto diversa da quella che era stata al centro del primo film di quella che minaccia di diventare una vera e propria trilogia sul potere. Se l’Elizabeth del primo episodio era, infatti, una donna condannata a perdere la sua femminilità in nome di un’ideale, quella del secondo film mette in moto un movimento decisamente opposto. È un’icona che percepisce ad ogni passo un’inesausta nostalgia di “vita”. Quello che la attira irrimediabilmente verso il pirata Raleigh, interpretato da Clive Owen, è esattamente questo: la percezione di spazi sconfinati (contro le mura sontuose della reggia) e il senso di piccolezza che si prova di fronte all’immensità del creato (contro la grandezza impostale del ruolo di sovrana). Quello che li accomuna è, invece, il dover bastare per se stessi, una solitudine che per l’uomo si fa avventura e per la donna è prevalentemente condanna.
Fosse stato solo questo The golden age sarebbe stato un gran bel film. Anche perché se è vero che Owen è attore qui un po’ smorto, non di meno Cate Blanchett, che da corpo ad Elizabeth, è quel tipo di attrice cui basta un leggero movimento del labbro per rendere il senso di tutto un personaggio e della sua interiorità. Ma, purtroppo, The Golden age non è solo questo. Il film di Kapur, infatti è anche il racconto di un periodo travagliato della storia inglese. È un’epica sulla guerra scatenata dall’odio e dal fondamentalismo religioso incarnato sia da Filippo di Spagna che da Maria Stuarda(una sprecatissima Samantha Morton) che ricorre a tutti gli elementi retorici del grande film in costume, con trionfalismi musicali ed un’impostazione dell’immagine pittorica e da grande affresco. E tanto per gradire ci mette in mezzo un triangolo amoroso (tra Elizabeth, Raleigh e Bess, una delle favorite della stessa regina) di cui non sentivamo davvero il bisogno.
Kapur insegue l’utopia di un film in costume, epico e spettacolare che sappia parlare di sentimenti e di interiorità, ma l’unica cosa che gli riesce è un’opera in cui anche le parti più intime suonano fracassone ed eccessive come le scene di battaglia. Un film di tinte fosche, di colori corruschi e terragni, di ombre che si annidano tra gli anfratti, di intrigo e di dolore che ha il suo principale difetto nel gridare troppo anche quando dice di bisbigliare. E pure l’epica, sospinta dai cori e dall’orchestra di una musica enfatica che suona bella solo quando sono finite le immagini (interessante il brano che accompagna i titoli di coda), appare derivativa con rimandi all’immaginario del Signore degli anelli (la scena dei falò delle vedette) che, senza il substrato fantastico, paiono poco credibili e tronfi. E l’atteggiamento nei confronti della Storia di Kapur è tipico del fiulleton e, per questo, minato da un eccesso di manicheismo che alla lunga dispiace. Peccato, perché qui e lì ci sono scene riuscite. Quasi sempre per merito degli attori.


CAST & CREDITS

(Elizabeth - The golden age); Regia: Shekhar Kapur; sceneggiatura: William Nicholson, Michael Hirst; fotografia: Remi Adefarasin; montaggio: Jill Bilcock; musica: Craig Armstrong, A. R. Rahman; interpreti: Cate Blanchett (Regina Elisabetta I), Clive Owen (Sir Walter Raleigh), Geoffrey Rush (Sir Francis Walsingham), Jeremy Barker (Ramsay), Adam Godley (William Walsingham), Tom Hollander (Sir Amys Paulet), Rhys Ifans (Robert Reston), Jordi Mollà (Philip II), Samantha Morton (Mary - Regina di Scozia); produzione: Studio Canal, Working Title Films; distribzione: Universal; origine: Gran Bretagna/Francia, 2007; durata: 115’


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