Ernest e Celestine

Il doppio non sempre è specchio, non sempre riflette l’immagine virandola al contrario.
Ernest e Celestine è l’esempio di una favola in cui il tema del riflesso si ribalta e si perfeziona nell’idea dell’omologo, in cui la coppia è come un gioco di vasi comunicanti che fa condividere, a due realtà apparentemente diverse, la stessa sostanza.
Il mondo di sopra e quello di sotto non sono l’uno il riflesso dell’altro, ma l’uno il ricalco dell’altro. Replicano, nel piano franco e libero del terreno dell’animazione, le stesse strutture e lo stesso bisogno di un’organizzazione sociale che tenga insieme gli individui. Il mondo degli orsi non è, in fondo, tanto diverso da quello dei topi anche se questi ultimi sembrano orientati verso un’organizzazione sociale comunitaria in cui i vari componenti sono cellule di un insieme (come un alveare) mentre i primi, più simili a noi, si chiudono in unità familiari autonome e chiuse.
La differenza di organizzazione sociale non è centrale al piano narrativo anche se non è neanche un dettaglio di secondo piano.
Propone però esigenze che si ribaltano sul piano iconografico con la resa tutta orizzontale della città degli orsi, dominata dall’idea di un tessuto urbano composto di case intorno a strade e piazze, che è virtualmente diversa dal disegno della città dei topi, costruita sullo slancio verticale degli agglomerati di unità abitative, col solo spazio uterino del dormitorio dei bambini così simile ad un orfanotrofio.
Eppure, malgrado le differenze di grado tra i due mondi, sono le similitudini al centro del concetto di visione: i due tribunali sorgono uno sopra l’altro quasi a rimarcare una continuità osmotica tra i due ordinamenti sociali; la presenza, nelle strade, di unità di polizia; il comune commercio-smercio di denti come merce (favolistica) pregiata e come nucleo di una vera e propria organizzazione commerciale fondata sul capitale (il laboratorio dentistico degli orsi) o sul furto (le incursioni dei topi sotto i cuscini dei piccoli che hanno perso i loro denti da latte).
La fiaba del resto comincia in pieno bed-time con la doppia definizione di un contesto affabulatorio. Qui la società produce il suo insegnamento e conduce i piccoli verso l’età adulta mediante il terreno fertile della fiaba.
Nel mondo di sotto essa assume le forme del racconto da orfanotrofio con la vecchia zia mostruosa che spaventa i piccoli col racconto terribile della cattiveria degli orsi.
Nel mondo di sopra c’è, invece, lo spazio ovattato del piccolo nucleo familiare che si riunisce intorno al rito della caduta del primo dentino da latte e con il racconto del topolino che ritira il dente per sostituirlo con una moneta (primo passo per un avvenire commerciale).
Le due società, consapevoli del loro bisogno di separazione, definiscono lo spazio del distacco (gli orsi hanno paura dei topi e della loro eccessiva prolificità, i topi temono di essere mangiati dagli orsi), ma anche lo spazio della comunicazione (i denti dei cuccioli di orso usati dai topi come dentiere).
Di fatto i due mondi superficialmente diversi si ritrovano, in profondità, nel comune bisogno di vedersi come società chiuse, autonome ed ugualmente spaventate dall’alterità. Sicché le differenze si appianano nel comune sforzo del mantenimento dello status quo con gli eserciti di polizia e i tribunali che, omologhi dal punto di vista iconico, perseverano nello sforzo di arrestare e condannare Ernest e Celestine colpevoli di essersi scelti come amici.
I due mondi sono, di fatto, consapevoli di aver bisogno l’uno dell’altro (i topi per i denti, gli orsi per il mito topesco che alimenta le favole), ma riducono lo spazio di contatto al terreno neutrale della notte, quando il buio permette un incontro senza troppe frizioni.
Normalmente i topi incontrano i piccoli orsi quando questi ultimi sono addormentati, il ribaltamento poetico di prospettiva avviene nel momento in cui Ernest incontra Celestine mentre quest’ultima dorme dopo essere stata imprigionata, per caso, all’interno di un bidone della spazzatura.
I due personaggi si scelgono nel loro comune essere «ai margini» del consesso sociale: lui nella sua voglia di essere attore, lei nel suo desiderio di essere disegnatrice. Al di fuori dell’affabulazione la loro unione è santificata dalla loro implicita carica metareferenziale: lui è messa in voce dove lei è messa in quadro di un cartone e, infatti, la fine del film coincide con il nuovo inizio del loro comune desiderio di raccontare la loro storia che lei disegna e lui rinarra.
Del resto è iconograficamente significativo che a far da ponte tra il mondo di sopra e il mondo di sotto sia la piuma di un cuscino che sfuggita alla battaglia dei bambini nel dormitorio dei topi (primo segno di un malessere sociale che si evidenzia nella citazione al capolavoro di Vigo Zero de conduite) va poi a posarsi nel mondo di sopra: la piuma di un cuscino è, infatti, ad un passo dal mondo dei sogni dei bambini, ma è anche la penna d’oca dello scrittore ottocentesco.
Per tutti questi motivi la favola di Ernest e Celestine, nel suo anelito mitico ad un mondo più tollerante e più capace di rapportarsi col diverso, pur rivolgendosi ad un pubblico prevalentemente infantile, si rivela, anche per merito della penna di Pennac, opera di straordinaria profondità e di originale complessità. Un esempio di grande cinema in cui al rigore della rappresentazione dei diversi consessi sociali, corrisponde il momento catartico delle tenerezze della coppia chiusi sotto il manto di neve dell’inverno: seme di cambiamento pronto a sbocciare con le prime gemme della primavera.
(Ernest et Célestine); Regia: Stéphane Aubier, Benjamin Renner, Vincent Patar; sceneggiatura: Daniel Pennac; soggetto: dagli album di Gabrielle Vincent editi da CASTERMAN; interpreti dell’edizione italiana: Claudio Bisio (Ernest), Alba Rohrwacher (Celestine), Dario Cantarelli (La Grigia); produzione: La Parti Productions, Les Armateurs, Maybe Movies; distribuzione: Sacher Distribuzione; origine: Francia, 2012; durata: 79’
