Fahrenheit 9/11

“Doveva essere un film su Osama, poi è arrivata la guerra ed è diventato un film sull’Irak” - così il regista Michael Moore ha spiegato l’incipit dell’opera che più di ogni altra ha scosso il passato Festival di Cannes 2004 (Palma d’oro + Premio dei critici) e che adesso approda anche nelle nostre sale italiane. Tuttavia a dispetto delle polemiche e del chiasso giornalistico che da mesi hanno avvolto il film sino a rendere un “semplice” regista di documentari una star assoluta del business audiovisivo, Fahrenheit 9/11 non può essere ridotto a un semplice pamphet anti Bush e quindi accettato o rifiutato (magari senza essere stato visto) a seconda delle proprie convinzioni ideologiche. In maniera di sicuro più diseguale di lavori precedenti - il finora insuperato Roger & Me o il premio oscar Bowling a Colombine, altra opera fortemente sostenuta dai fumi mediatici - Moore comunque lavora sulle immagini d’archivio e/o sui materiali di repertorio con rigore magistrale, connettendoli e straniandoli tramite il montaggio per conferire loro un senso profondo che li allontana dalla semplice resa testimoniale degli eventi o dell’informazione ridondante della “tv verità”. Ciò che più sorprende nell’opera del filmmaker americano è dunque quella “diabolica” capacità, certo polemica ma soprattutto cinematografica, di attraversare gli eventi precedenti e successivi all’11 settembre sino alla guerra in Irak, alternando il tragico al comico, il patetico-patriottico all’invenzione estemporanea (le “surrealiste” azioni di protesta di Moore nei confronti delle istituzioni rappresentative americane). Per raccontare, attraverso un complesso lavoro di ricerca e di montaggio, contesti e connessioni più vaste: dagli ormai noti legami d’affari tra la famiglia Bush e quella di Bin Laden, agli investimenti sauditi negli Usa, al grande nodo del possesso del petrolio, al patriottismo e alle atrocità della guerra. Siamo però convinti altresì che non tutto funziona, come dovrebbe, in questo Fahrenheit 9/11: la parte finale, quella appunto della guerra in Irak con tutte le atrocità che quotidianamente ha svelato, sembra aver “sorpreso” il suo autore e senza bisogno di essere sofisti, ci sarebbe molto da discettare se l’involontario allargamento di campo, dettato dal corso degli eventi, abbia giovato all’impianto complessivo, all’idea di partenza del film. Ma anche così - opera spuria e di battaglia politica - siamo convinti che resta un lavoro importante da vedere e apprezzare anche per i suoi espliciti errori. In ogni caso persino il più acerrimo dei suoi nemici dovrebbe riconoscere che esso segna, in maniera macroscopica, un trend, ormai in auge da qualche tempo e che il 2004 ha ormai santificato, verso un atteggiamento più documentale e “realistico” del cinema, con cui i fratelli Lumière si stanno prendendo una tarda rivincita su Méliès. E del fatto che il documentario oggi venga preso sul serio o sia addirittura di moda, dobbiamo comunque ringraziare il buon americano Michael Moore.
[agosto 2004]
Regia e sceneggiatura: Michael Moore; fotografia: Mike Desjarlais; montaggio: Kurt Engfehr, Todd Woody Richman, Chris Seward; musica: Jeff Gibbs; produzione: Miramax, Dog Eat Dog, Fellowship Adventure Group, Lions Gate: origine: USA 2004; durata: 115’; distribuzione italiana: Bim
