Fai bei sogni

Chi negli ultimi cinquant’anni si è visto quasi tutta l’opera di Marco Bellocchio, ha amato I pugni in tasca, Sbatti il mostro in prima pagina e Matti da slegare , ha atteso che passasse la cotta per Massimo Fagioli e negli ultimi vent’anni ha apprezzatoL’ora di religione, Buongiorno notte e lo straordinario Vincere non può non essersi chiesto come mai il regista di Bobbio sia andato a trarre un film da un best seller certamente sincero e sentito ma non proprio complesso né sul piano della costruzione né su quello dello stile come Fai bei sogni del giornalista Massimo Gramellini, uscito nel 2012 presso Longanesi. Volendo escludere che possa essersi trattato di un semplice lavoro su commissione, quel testo deve evidentemente aver attivato dei cortocircuiti, dei complessi tematici e iconici che hanno attratto Bellocchio, giunto al suo film numero 46. Primo fra tutti, uno dei complessi a lui più cari, quello della famiglia: Massimo perde la madre quando ancora non ha nemmeno dieci anni e vive da allora circondato da una coltre di freddezza, di silenzio, di mistero. Versione ufficiale: la madre è morta di infarto notturno e fulminante, dopo, molto dopo il protagonista verrà a sapere che non è così (lo spettatore, per la verità, l’ha capito da un bel po’, anche senza conoscere il memoir di Gramellini). La madre è morta, ma è presente e viva almeno quante altre madri di Bellocchio, di fatto impedendo una corretta relazione col mondo non solo femminile, o quanto meno consentendone solamente alcune di tipo sostitutivo. Qui, durante la fine dell’infanzia, sono la televisione e la squadra del Torino a fungere da surrogato; durante l’adolescenza: squarci di vite immaginate, che tuttavia si rivelano, a ben vedere, il frutto di relazioni altrettanto malate (l’amico ribelle con la madre francese, attrice bella e avvolgente, respinta dal ragazzino innamorato dei Led Zeppelin) poi per un breve, brevissimo periodo la religione (a seguito di una lectio filosofico-metafisica affidata all’attore feticcio bellocchiano Roberto Herlitzka); durante la vita adulta il surrogato numero uno resta il lavoro: giornalista sportivo, corrispondente di guerra a Sarajevo (forse in assoluto la parte più debole del film), cronista politico (involontario testimone di un suicidio eccellente, à la Raul Gardini, con un eccellente cameo napoletaneggiante di Fabrizio Gifuni), poi opinionista de “La Stampa” (con altri camei di attori che hanno fatto della stagione d’oro del cinema d’autore bellocchiano: da Giulio Brogi a Piera Degli Esposti). Ma tutte queste relazioni non servono a far crescere Massimo che sempre si aggira, muto, accigliato, pensoso per strade, macchine e case, con l’aggrottato sembiante di Valerio Mastandrea, quarantenne a fine Novecento che torna a Torino, morto il padre, per disfarsi della casa-inferno strindberghiana, venticinque-trentenne sul finire degli anni ’80 e all’inizio degli anni ’90 che si aggira, capello lungo con aria vagamente Bruno Ganz, stranito e spettatore. Apprezziamo Mastandrea come pochi altri attori del cinema italiano, ma questa, a nostro modo di vedere, non è la sua prestazione migliore, troppe poche sfaccettature, troppi alla fine inespressivi silenzi. Vi è poi una possibile svolta, seppur resa in modo non esattamente plausibile: la conoscenza della dottoressa, interpretata da Bérénice Béjo (il film, lo si sarà capito, è una coproduzione italo-francese), grazie alla quale Massimo sembrerebbe finalmente potersi emancipare dal suo stato di orfano e, per una volta, lasciarsi andare, come accade alla festa in campagna, quando finalmente si lancia in una danza sfrenata. Il film è troppo lungo, fondamentalmente ridondante, malgrado la sceneggiatura di un altro esperto di famiglia italiana, Edoardo Albinati. Coadiuvato dalla fotografia un po’ troppo estetizzante e anticata di Daniele Ciprì, Bellocchio alterna forse più del necessario i diversi piani temporali, indulge più del necessario nella microstoria televisiva tutta popolata di figure supereroiche: la celebre miniserie Belfagor ovvero il fantasma del Louvre, supereroe sostitutivo della madre morta e del padre assente, Canzonissima e i divi della canzone, religiosamente raccolti in album fotografici, i campioni dello sport: Klaus Dibiasi e Giorgio Cagnotto; qua e là si sente, improvvisa, la zampata di Bellocchio (sostenuta dalla notevolissima musica di Carlo Crivelli), magari in piccoli episodi apparentemente parentetici a mostrar palazzi e planetari, attrici, sacerdoti e faccendieri, quando il regista sembra dimenticarsi del suo protagonista che, in fin dei conti, non deve essergli piaciuto più di tanto.
(Fai bei sogni). Regia: Marco Bellocchio sceneggiatura: Marco Bellocchio, Edoardo Albinati, Valia Santella; fotografia: Daniele Ciprì; montaggio: Francesca Calvelli; musica: Carlo Crivelli; interpreti: Valerio Mastandrea (Massimo), Bérénice Bejo (Elisa), Guido Caprino (padre di Massimo), Fabrizio Gifuni (Paolo), Roberto Herlitzka (Ettore); produzione: IBC Movie, Kavac Film, Rai Cinema origine: Italia, Francia 2016; durata: 134’.
