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Fame - Saranno famosi

Pubblicato il 13 ottobre 2009 da Alessandro Izzi
VOTO:


Fame - Saranno famosi

La distanza che separa il titolo originale Fame dal titolo italiano Saranno famosi è ben più grande della semplice coniugazione di un verbo. È una distanza etica, un modo diverso di interpretare e definire uno stesso soggetto.
In Fame si condensa tutta una serie di valori e di tensioni. La fama è la motivazione all’agire di un gruppo di giovani talenti, è la spinta ad una corsa all’autoaffermazione, il motore primo di un intreccio che mette in campo ostacoli e rifiuti su una strada impervia e tutta in salita. Un punto d’arrivo invisibile, anche se incredibilmente desiderabile, che deve restare al di fuori della messa in scena. Il titolo originale è il fuori campo perenne del discorso, è ciò che resta fuori dai meccanismi affabulatori. Quello che noi possiamo vedere è solo la tensione alla fama, non la fama in sé che resta per sempre infilmabile.
L’italiano Saranno famosi, viceversa, è, sin dal futuro semplice di immediata limpidezza, una vera e propria promessa. In esso si coglie, non importa dove, non importa come, il segno di una realizzazione imminente, talmente prossima che già se ne può sentire il profumo, la desiderabile fragranza. Del resto Saranno suona sempre e comunque meglio del ben più realistico Potrebbero essere.
Il motivo della differenza risiede oltre che in motivi di carattere culturale anche in considerazioni di carattere geografico. La New York del film di Parker (e poi del serial televisivo e poi di questo nuovo remake) è estremamente vicina alla Hollywood del cinema e dei miti. I giovani talenti americani respirano la stessa aria (inquinata) dei loro idoli che incontrano per strada, quando sono fortunati, mentre vanno al MacDonald o a far compere nei grandi magazzini. La fama se la ritrovano sotto casa tutti i giorni e, ad ogni passo, possono confrontarsi coi suoi paradossi.
In Italia la cosa più vicina non è Cinecittà (che se ne sta all’estrema periferia di Roma), ma Città del Vaticano: una realtà che insegna sin da bambini a coniugare ogni verbo al futuro dell’eternità prossima ventura.
La differenza è, quindi, di sostanza. La fama per gli americani è un mostro che fagocita, ci riempie di aspettative e le disillude, ci fa desiderare che tutti ricordino il nostro nome e poi ce lo cambia in uno pseudonimo d’arte. La fama per gli italiani ha qualcosa di più casareccio, di più conviviale e di meno urgente. Di qui l’immensa attitudine all’indulgenza che tutto perdona con un sorriso meschino.
È per questo che alla coniugazione al futuro si è potuta aggiungere con tanta facilità la coniugazione al presente della De Filippi. In questo predicato tutti possono diventare famosi. Né attitudine, né talento contano più niente. Bastano un trono e un pubblico per pervertire il sogno di Andy Wharol.
Pervertire perché la televisione è andata ormai molto oltre l’affermazione dei quindici minuti di celebrità. In un mondo dove ognuno può diventare famoso al di là dei meriti e dello studio, nessuno lo è veramente. Ognuno annaspa davanti ad una macchina da presa e nessuno si imprime più nella memoria. Gli stessi cantanti ballerini del defilippico Saranno famosi (poi ribattezzato Amici perchè qualcuno, con lapsus berlusconiano, si era dimenticato di pagare i diritti d’autore sul titolo) sono tornati nell’anonimato da cui provenivano (stessa sorte, pensiamo, è toccata agli aspiranti attori degli omologhi programmi televisivi d’oltreoceano). Qualcuno ha inciso un disco che, c’è da giurarci, non durerà i trecentocinquant’anni di una fuga di Bach, la maggior parte degli altri è ridotta ad animare le serate dei grandi centri commerciali entro cui si esibiscono anche le scolaresche delle vicine scuole medie in cerca di musical. È per questo che, nell’approcciarci al film dobbiamo registrare prima di tutto la nostra cattiva abitudine. Perché ci è diventato impossibile, ormai, guardare un film come questo senza avere davanti agli occhi la lente distorcente dei fenomeni televisivi e dei reality show.
In verità il Fame di Alan Parker registrava l’inizio di un fenomeno non solo televisivo: la corsa al successo facile, all’apparire ed al mostrarsi. Il remake, viceversa, ne registra in toni non meno accorati la fine.
Il nuovo Saranno famosi è pervaso da un’aurea funerea, da toni di quieta apocalisse, da un senso di disillusione a stento trattenuto. I suoi personaggi si affollano davanti allo spettatore come bolle di sapone che non hanno altra promessa che il loro prossimo scoppiare. Come bolle di sapone veleggiano leggiadre pronte ad ammaliare un pubblico solo infantile (le dodicenni della nuova generazione), ma sono al fondo tutte uguali, anonime nella loro sfericità mai contraddetta. Il vecchio Saranno famosi registrava ancora la possibilità di individualità eccezionali, c’erano ancora i Leroy o le Coco. Qui nessuno trova posto nell’immaginario, tutti volano via pronti ad infrangersi al primo muro. Neanche le canzoni o i numeri di ballo si attaccano alla mente, figuriamoci al cuore e l’unico momento di pura emozione viene dal passato dall’intonazione commossa di On my own che ricorda i soprassalti di una difficile definizione generazionale.
Nel mondo di oggi, e non solo in Italia, il saranno è stato soppiantato da un presente stinto e confuso. Il film lo registra e diventa, per questo, a suo volta stinto e confuso. Perché, ci si racconta tra le righe, il successo è diventato esso stesso una merce di consumo e come tale va venduto e non conquistato. La De Filippi approverebbe senz’altro.


CAST & CREDITS

(Fame); Regia: Kevin Tancharoen; sceneggiatura: Allison Burnett, Aline Brosh McKenn; fotografia: Scott Kevan; montaggio: Myron I. Kerstein; musica: Mark Isham; interpreti: Naturi Naughton, Asher Book, Kay Panabaker, Kherington Payne, Collins Pennié; produzione: United Artists, Lakeshore Entertainment, Metro Goldwyn-Mayer; distribuzione: Lucky Red; origine: USA, 2009; durata: 120’


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