Festa del cinema di Roma 2007 - Auschwitz 2006 - Extra

‘Quando guardi nell’abisso, l’abisso a sua volta guarda in te’
F. W. Nietzsche.
Girare oggi un film che si confronti con l’orrore dell’Olocausto non è più neanche una sfida. È lontano, infatti, il tempo in cui Resnais, nel realizzare il suo film monumento Nuit e bruillard, si confrontava con l’orrore di immagini che il pubblico non aveva ancora mai visto. Sono distanti e stranamente evanescenti i tempi in cui il racconto della vita nei campi d’internamento poteva ancora suscitare raccapriccio, spavento e quel misto di paura e curiosità che si prova di fronte a cose che sentiamo ancora prossime ed in certo qual senso vive. Quando nei campi di concentramento l’erba non aveva ancora ripreso a crescere, quando gli spiazzi dove avevano luogo le adunate delle cinque del mattino avevano ancora il loro aspetto brullo e fangoso, quando l’odore bruciaticcio dei cadaveri ancora sfidava, con strana persistenza il gioco dei venti (e i più sensibili tra noi giurano di sentirlo ancora quando entrano nel recinto di Auschwitz) tutto sembrava portare testimonianza concreta di un abominio che ci era passato terribilmente vicino.
Oggi, il tempo passato abbatte le barriere dell’orrore, l’abitudine alla violenza (che permea i TG, si insinua nei film del cinema, ci rincorre fin anche nei videogiochi) ci rende più sordi e più ciechi di fronte ad una storia di cui crediamo di sapere tutto e, paradossalmente, lo sforzo di tenere vivo il ricordo (con le giornate della memoria, con lo studio sui libri, con la celebrazione mesta degli anniversari) sortisce l’effetto contrario. I ragazzi nelle scuole, non appena si avvicina il 27 settembre e i professori preparano per loro la proiezione di un documentario o anche semplicemente di La vita è bella di Benigni, ricusano come animali sottoposti ad un giogo troppo pesante. Sanno già tutto. Hanno visto già tutto nel documentario dello scorso anno. Soprattutto non vogliono più porsi il problema. La vita è già così brutta così com’è.
E così l’abitudine ad un consumo di immagini violente (quelle dei film che passano pure in prima serata e che spesso cercano di superare in fantasia quello che la storia ha già concretizzato) e la ripetizione cadenzata di una storia che vuol tenere vivo un ricordo che sta scomodo a tutti (come un pastrano d’estate che, oltretutto, era quello della nonna) ci obbligano a confrontarci con il paradosso delle immagini.
Vedere una cosa è il primo e più potente passo per percepirne la realtà. Come San Tommaso anche noi abbiamo bisogno di vedere per credere. Ma rivedere anestetizza l’impatto, logora dall’interno l’atto stesso del vedere, lo rende innocuo. Le immagini dei campi di concentramento sono ormai queste qui. Da cinquanta anni. Resnais, quando realizzava il suo capolavoro, poteva ancora pensare di tenerne fuori qualcuna che giudicava troppo violenta per il pubblico del tempo. Oggi, invece, abbiamo fatto il callo anche a quelle immagini che il regista francese aveva tenuto fuori, ne siamo saturi.
Così l’immagine, destituita della sua capacità di raccontare la realtà dell’orrore, è diventata un filtro tra noi e il passato. Da una parte c’è una storia terribile, dall’altra ci siamo noi. Il filo che ci lega è una commozione che sentiamo il dovere di provare (come si può restare insensibili di fronte a certe scene!), ma che vorremmo non provare (del resto quelle stesse scene le vediamo ogni anno).
Ne è consapevole Costanzo nella realizzazione del suo commosso, splendido documentario. È consapevole che quella barriera che separa ieri da oggi deve essere rimossa. È consapevole che siamo preda dell’abitudine alla visione dei campi. Sa anche troppo bene che tutto è stato già detto. E allora non dice. Restringe il suo campo sull’oggi e il passato lo fa filtrare dai pertugi dell’immagine, lo fa volare mesto tra le parole. Le prime inquadrature reinventano il senso del capolavoro di Resnais. La consapevolezza è che i campi di concentramento hanno subito un’irreversibile opera di museificazione, sono diventati Luoghi di visita (qualcuno può comprarci anche qualche cartolina o qualche gadget). Ma le file di turisti sono così tanto simili a quelle dei deportati perché la memoria non si accenda. Così i ragazzi della scolaresca romana compiono di nuovo il percorso che spingeva le vittime ai forni. Ed è questo il senso della memoria. Il souvenir non è quello che si compra proprio all’uscita del campo, ma trova il suo significato nella parola stessa: souvenir, riportare a galla, ripescare da un passato fatto distante.
Le immagini dell’orrore scelte da Costanzo sono poche, scelte con cautela, montate con un mirabile senso dell’etica. Quando i ragazzi visitano, nottetempo sotto una pioggerellina leggera che trasforma, alla visione, gli ombrelli in veri e propri filtri di luce marroncina, noi vediamo corpi distesi per terra. Sono quelli di ieri, ma potrebbero benissimo essere quelli di oggi. Potrebbero essere quei mendicanti cui in genere dedichiamo sguardi distratti, per passare oltre. È così che ieri ed oggi si incontrano e si rispondono.
L’orrore più grande Costanzo lo confina nelle parole dei superstiti intervistati dai ragazzi delle scuole di Roma che sono in visita al campo. Sono storie tristi e bellissime che chiedono ad uno spettatore assuefatto alla visione della violenza di trovare nel proprio cuore il giusto equilibrio di orrore e dolcezza (perché anche il ricordo dell’orrore non può non ammantarsi di una sua tragica dolcezza, perché c’erano affetti anche quando ci si tuffava a terra a mangiare briciole di pane impastate col fango) per renderle immagini che valgono solo per noi.
Ed è così che l’orrore non visto diventa nostro. Ed improvvisamente ci accorgiamo che non siamo più noi a guardare nell’abisso, ma è l’abisso che guarda verso di noi. Lo testimoniano i ragazzi delle scuole di Roma che muti, ci guardano dallo schermo. Il loro silenzio raccoglie un’emozione che in parte se n’era già andata quando la macchina da presa si è accesa, ma in parte è ancora lì come quell’odore di bruciato che molti continuano a dire di sentire. Così la scena si riempie di sguardi, di occhi puntati verso noi spettatori e si avvera un’utopia senza pari. Credevamo di guardare immagini entrate nella nostra abitudine e, improvvisamente ci scopriamo fatti oggetto di visione.
Consapevole di non poter più mostrare l’orrore, Costanzo lascia il campo di concentramento e guarda verso il pubblico. E l’ultimo sguardo, quello che alla fine trapassa i nostri cuori, è quello di un bambino di un passato che si è finalmente fatto presente. Un piccolo deportato sui cui occhi anche la musica sente il dovere di zittirsi (in un sincrono d(e)i sensi vertiginoso): occhi pieni di lacrime, puntati sulla macchina da presa, mentre la bocca si piega, per noi e non per altri, al più triste dei sorrisi.
(Auschwitz 2006); Regia: Saverio Costanzo; fotografia: Giovanni Troilo; montaggio: Francesca Calvelli; musica: Nicolò Paganini, Philip Glass; produzione: Offline - Istituto Luce; distribuzione: Istituto Luce; origine: Italia 2007; durata: 49’

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