Festa del Cinema di Roma 2007 - Ce que mes yeux ont vu - Concorso
L’arte e il cinema sono legate da un cordone impossibile da recidere. La verosimiglianza dell’immagine cinematografica contribuisce a rafforzare questo rapporto contro il quale tanti si sono scagliati con fervore. Eppure il fatto che una immagine sia verosimile non significa affatto che quello che viene raffigurato coincida con quello che l’artista ha deciso di raccontare. L’immagine inganna, depista e soprattutto nasconde.
Sono molti i grandi registi che si sono interrogati su questa duplice natura, su tutti basti citare Greenaway e Antonioni, eppure il tema non è mai troppo esplorato, approfondito e in ogni caso non cessa di essere affascinante. Quello che riusciamo solo ad intravedere, ad intuire, esercita sull’immaginario collettivo un’attrattiva che potremmo definire immortale.
È questa la storia di Ce que mes yeux ont vu, una delle pellicole più interessanti tra quelle presentate in concorso. Lucie è una giovane studentessa di storia dell’arte, ossessionata dal soggetto principale di alcune tele di Jean Antonie Watteau (pittore di matrice fiamminga che le biografie descrivono come un uomo misterioso, riservato e di carattere cupo e malinconico) : una donna senza identità quasi sempre rappresentata di spalle. Comincia così una affannosa e appassionata ricerca che la porterà a fare una scoperta sensazionale. Se pur costruito con un certo ritmo il film non ha certo le caratteristiche del giallo prendendo, fortunatamente, le distanze da pellicole come Il codice Da Vinci.
Fin dalle primissime inquadrature, infatti, il film denuncia il suo essere per prima cosa uno studio sull’immagine, sull’osservazione e sugli ostacoli che si frappongono tra l’osservatore e la cosa, o la persona che si cerca di conoscere. La conoscenza si avvale dell’elemento visivo come mezzo principale, e solo dopo di tutti gli altri sensi. Lo spettatore viene, dunque, riportato alla condizione primordiale di Voyeur, di osservatore ossessivo e ossessionato dal fatto che oltre l’immagine esiste qualche cosa che val al di là di quello che possiamo vedere. Il personaggio di Dussart lo riassume con chiarezza estrema: non solo è muto e sordo, ma anche immobile (di professione fa la statua vivente); per tutto il giorno non può fare altro che osservare senza avere nessuna possibilità di interazione con l’esterno. Questa straordinaria capacità di osservazione gli permetterà di suggerire a Lura la strada da percorrere per arrivare alla soluzione del mistero. Ma non è qui che Laurent de Bartillat si ferma. Quello che interessa il regista francese è un’analisi di carattere più profondo, che sposta il baricentro del film dall’immagine ai protagonisti. Il concetto espresso è di carattere generale dunque e viene esplicato tutto nella metafora del fiume sotterraneo che scorre sotto le strade di Parigi; la Bièvre è un corso d’acqua di una certa importanza che durante i secoli è stato progressivamente coperto per permettere alla città di espandersi più facilmente. Cancellato dalla vista, e dunque dalla memoria collettiva, la poco nota esistenza di questo fiume ci conferma l’assunto secondo il quale ricordiamo solo ciò che vediamo e che qualunque cosa non venga registrata, filmata o catalogata rischia di scomparire per sempre. È necessario saper guardare sotto il primo strato, la crosta che ricopre la vera natura delle cose, dare nuova vita a quello che il passato ha deciso di seppellire.
(Ce que mes youex ont vu - The Vanishing Point); Regia: Laurent de Bartillat; sceneggiatura: Laurent de Bartillat, Alain Ross; fotografia: Jean-Marc Selva; montaggio: Tina Baz Legal; musica: David Moreau; scenografia: Sandra Castello; interpreti: Sylvie Testud (Lucie), Jean-Pierre Marielle (Dussart), James Thierrée (Vincent). ; produttori: Geoffroy Grison, Fred Bellaïche; produzioneShilo Films; distribuzione internazionale: Films Distribution; origine: Francia; durata:88’.
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