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Festa del cinema di Roma 2007 - Giorni e nuvole - Conferenza Stampa

Pubblicato il 23 ottobre 2007 da Alessandro Izzi


Festa del cinema di Roma 2007 - Giorni e nuvole - Conferenza Stampa

La commozione per la visione di Giorni e Nuvole, uno dei più bei film tra quelli sin qui presentati a questa seconda edizione della Festa del Cinema di Roma, è ancora tangibile quando comincia, con inqualificabile ritardo (che per molti dei presenti significa la rinuncia della proiezione delle 14:30), la conferenza stampa del film. Niente preamboli, quindi. La folta schiera degli ospiti (quattro attori, regista e tre sceneggiatori: che qualcuno sia lì senza poter dire niente è fisiologico) fa appena in tempo a prendere posto e subito comincia il fuoco di fila delle domande.

Domanda al regista. Il personaggio di Michele non è certamente uno di quelli che ci aspetteremo di vedere a manifestazioni come quella che c’è appena stata sul precariato, una persona che non sembra capace di pensare che le possa capitare quello che poi le capita. È un modo di dire che la precarietà è una realtà che coinvolge tutti prima o poi? A cosa si è ispirato per la realizzazione del film?

Silvio Soldini: Una parte delle cose che ci sono in questo film ha a che fare con lo stupore. Lo stupore di persone che pensavano che la loro vita, di lì in avanti, avrebbe preso un corso di serenità, di quotidianità, senza grossi problemi economici e che invece, improvvisamente, si trovano catapultate, per primo il personaggio maschile di Michele, in una realtà diversa e sono così stupite per la situazione che non sanno neanche come reagire. La storia è come una delle tante che leggiamo sui giornali. Una storia che finché riguarda altri ci lascia un po’ indifferenti, ma che, quando capita a te, ti lascia tramortito. Per quel che mi riguarda, ogni film nasce un poco sull’esperienza di quelli che lo hanno preceduto. Prima di questo c’è stato Agata e la tempesta, un film molto colorato e molto surreale e quindi sentivo il bisogno di lavorare su qualcosa che mi faceva sentire molto più dentro nella realtà di tutti i giorni. Affrontare un tema come quello della relazione di coppia, poi, è una realtà che non avevo mai affrontato per davvero nei miei film precedenti. La loro relazione sentimentale unita ai problemi socioeconomici del mondo contemporaneo sono, quindi, le due molle che mi hanno convinto a realizzare il film. Abbiamo, quindi, ideato questi personaggi e poi abbiamo cercato di seguirli nel loro percorso umano.

Domanda agli sceneggiatori: Come avete lavorato sulla sceneggiatura? Vi siete ispirati su qualche fatto reale?

Francesco Piccolo: Giorni e nuvole è un film sul quale abbiamo lavorato per molto tempo. Ci interessava raccontare il rapporto tra la lenta discesa agli inferi di una coppia borghese e la loro capacità di restare insieme malgrado tutto. Ci abbiamo lavorato molto perché era difficile capire i passaggi reali di questa discesa, lenta, ma inesorabile che parte dal fatto che l’uomo, all’inizio è un imprenditore. Non era facile far capire bene come da questa posizione sociale si potesse scendere così in basso come avviene nel film. Il nostro desiderio, in questo senso, era di rispecchiare il più possibile la realtà Basti pensare alla scena del corriere espresso. Fino a poco tempo fa quando un corriere espresso bussava alla nostra porta, era generalmente un ragazzo quello che ci trovavamo davanti con il pacco. Oggi capita sempre più spesso che a fare questo lavoro siano dei quarantenni o dei cinquantenni. Da questa semplice considerazione è partita la nostra indagine. Quindi l’ispirazione per il film viene sempre dalla realtà anche se è rimasto fermo il punto che si dovesse partire da una situazione alto borghese perché volevamo che a subire questa terribile discesa agli inferi fossero degli intellettuali, delle persone che capiscono e studiano.

Al regista: Ha fatto delle prove prima del film? Gli attori sono bravissimi, ma sembrano molto spontanei.

S. S.: L’impressione di spontaneità deriva da un lungo lavoro preparatorio. Intanto bisogna scegliere bene gli attori. Nel mio caso (guardando prima la Buy, poi Albanese) devo dire che li ho scelti bene (risata del pubblico). Una volta scelti bene gli attori si può cominciare a parlare con loro e, quando sono attori così disponibili e generosi come loro, diventa tutto molto semplice e si può arrivare ad alzarsi la mattina e andare a lavorare contenti di farlo. Cosa che non a tutti succede.

Antonio Albanese: Per quel che mi riguarda la storia mi ha colpito e coinvolto immediatamente perché io arrivo dal mondo del lavoro e dal mondo operaio. I miei genitori lo hanno fatto e io stesso l’ho fatto per un po’ di tempo. Il mondo del lavoro mi appartiene e io stesso lo racconto in Giù al nord che è uno spettacolo che parla solo di lavoro. Ma il film mi ha coinvolto anche perché, in contemporanea alla preparazione del film, un mio caro amico ha avuto lo stesso problema di Michele e ha perso il proprio lavoro. Il suo sguardo, che sembrava un fermo immagine che è rimasto tale per un mese, mi aveva molto colpito perché lui è una persona molto orgogliosa e la notizia lo aveva letteralmente distrutto. Mi sono buttato allora nel personaggio con rinnovata energia, col cuore e con l’anima perché l’argomento era diventato per me ancora più caro. Poi c’era anche il tema del rapporto di coppia che mi interessava molto. Con l’aiuto di Margherita, che è un’attrice che io amo particolarmente, mi sono veramente ritrovato bene. Come diceva Silvio è diventato molto facile lavorare perché si era creata un’armonia. Mi sono poi trovato molto bene a girare a Genova che è una città che ti lascia una sensazione molto legata al lavoro, ma che, coi suoi spazi, le sue case mi ha dato quel calore di cui avevo bisogno per lavorare bene. Nel nostro mestiere spazi e ambienti che ti circondano e le persone con cui lavori sono fondamentali per darti quell’atmosfera che ti permette di lavorare bene anche affrontando un tema così delicato. Poi diciamolo, anche per quel che si riguarda, noi siamo attori. E non c’è al mondo, forse, un lavoro più precario di questo.

Margherita Buy: Beh io posso solo ripetere quello che ha già detto Antonio e che ho già detto nelle interviste di prima (quelle per la televisione). Mi colpisce un fatto: noi nelle interviste di prima non abbiamo potuto sentirci eppure io e Antonio abbiamo detto esattamente le stesse cose. Forse vuol dire che stiamo diventando una coppia affiatatissima. Mi ritrovo nel fatto di Genova. Noi abbiamo lavorato molto. (Qui il tono diventa davvero molto scherzoso eppure serio) il regista poi è davvero uno molto bravo. Io sono una che tende ad impigrirsi e, invece, lì… non si poteva proprio! (risata). Però è stato un’esperienza bellissima ed importante.

A. A.: Ora che Margherita ne parla devo dire una cosa. A lavorare con Soldini, minuto per minuto, quasi ti aspettavi di vederlo arrivare col frustino. È una roba impressionante. Non si sbottona mai (Margherita Buy annuisce calorosamente). Finivi una ripresa e poi ti confrontavi con gli atri attori e chiedevi: “A te cosa ha detto?” “A me ha detto Niente male…” (esasperando la voce) Porca miseria! Niente male… Poi abbiam scoperto che "Niente e male" vuol dire che è iper contento. Però era entusiasmante, e qui non scherzo più, la passione si Silvio che letteralmente stava sul pezzo ed entrava nell’atmosfera della situazione.

Fabio Troiano e Alba Rohrwacher confermano le impressione della Buy e di Albanese.
Alba Rohrwacher: La sensazione di spontaneità di cui parlavate prima deriva da un grande lavoro che c’è a monte dall’idea che evidentemente Silvio aveva e noi seguivamo. Era davvero sempre molto presente.

Al regista: Parliamo ora di Genova da un punto di vista cinematografico. Genova è sempre stata identificata come una città del lavoro. È questo il motivo che l’ha spinta a girare lì?

S. S.: Io credo di fare un cinema che consuma le città e i paesaggi nei quali ambienta le sue storie. Una parte di Agata e la tempesta era già stato ambientato a Genova, ma era una piccola parte. Dopo quel film sentivo davvero il bisogno di tornarci. Molte delle inquadrature del film sono state letteralmente rubate. Certe volte, nella pausa tra una ripresa e l’altra ci capitava di trovare una luce particolarmente bella e allora approntavamo subito una seconda macchina per realizzare delle inquadrature che non erano preventivate nel piano di lavoro. La prima inquadrature del film, ad esempio, del paesaggio di Genova all’alba, non era prevista per il giorno in cui è stata effettuata. Quel giorno dovevamo, infatti, realizzare solo una scena di dialogo in macchina. Poi però ci siamo ritrovati una luce così bella che non abbiamo saputo resistere.
Non ho deciso di anadre a Genova per il suo bagaglio di storia e per il suo rapporto col lavoro. È stata una scelta motivata dalla sua dimensione pittorica.

Agli attori: come siete riusciti a non raggiungere mai la dimensione del melò?

A. A.: La domanda è estremamente difficile, forse perché estremamente facile. Da parte mia io lavoro prima cercando di costruire l’esperienza, il background del mio personaggio e poi sul corpo. È il mio modo di entrare nel personaggio. Cercare di capire quanta leggerezza o quanta pesantezza deve investire in determinate scene. Poi noi ci appoggiavamo su una sceneggiatura che era estremamente chiara e quindi il personaggio viene di conseguenza, in maniera spontanea. Mi piaceva questa discesa agli inferi del mio personaggio. Provare ad immaginare come cammina, com’è il suo sguardo.

M. B.: La sceneggiatura è già molto chiara, chiarissima. Ed è quindi tutto lì. Poi io e Antonio abbiamo lavorato molto proprio con gli sceneggiatori che è una cosa che non si fa molto spesso e che io ho apprezzato tantissimo. La sceneggiatura, quindi, non era una realtà chiusa sulla quale non si poteva mai tornare. Al contrario è stato un lavoro aperto e molto stimolante. Non è stato un vero e proprio lavoro di riscrittura, ma una rifinitura che voleva far sì che il lavoro si avvicinasse il più possibile a quelle che potevano essere le nostre esigenze. C’era grande attenzione e amore nei confronti del lavoro.

Interviene A. A.: Io credo che sia fondamentale anche la possibilità di sbagliare ogni tanto qualche scena perché l’errore fa parte del processo di creazione del personaggio. Per questo sono fondamentali le prove e il lavoro di rifinitura della sceneggiatura con gli autori e con Silvio. Questo è un lavoro che oggi non si fa più. Come avviene con la fiction dove vieni letteralmente lanciato nella situazione e costretto a realizzare delle scene anche molto importanti senza averci davvero lavorato su. E lì si sente, poi, quanto il lavoro sia poco studiato. È difficile, ma si dovrebbe sempre trovare del tempo per meditare sul lavoro, trovare lo spazio per le prove e per la riflessione.

Signor Soldini, come ha cambiato il suo modo di girare rispetto ai suoi film precedenti? Fino a che punto raccontare una storia reale ha influenzato il suo modo di girare.

S. S.: Sicuramente ogni film deve trovare un proprio stile. Questo è un film molto diverso da Brucio nel vento che, invece, è un film molto letterario. Ho parlato molto con il direttore della fotografia sulla possibilità di girare il più possibile in piano sequenza e lui (Ramiro Civita) aveva già lavorato molto in questo senso all’interno di altri film. Gli attori dovevano, quindi, lavorare molto in tempi lunghi. Alle volte anche per quattro minuti di seguito. Volevo evitare la classica dinamica di campo e contro campo che spezzetta la situazione e cercare, invece, di dare la sensazione di stare realizzando qualcosa di documentaristico anche se poi il film non è tale. Del resto anche i Dardenne fanno un sacco di prove per arrivare a fare i loro film come li fanno. E gli attori all’inizio avevano anche un po’ di paura. Margherita continuava a ripetere che non ci riusciva. Invece, dopo i primi giorni, hanno raggiunto ottimi risultati, hanno toccato cose molto belle. Certo sono pervenuto ad uno stile che, a vedersi, sembra quasi imperfetto, però si avvicina di più alla vita reale e ai personaggi messi in scena.

Signora Buy, in passato ha realizzato dei film con dei ruoli molto drammatici da donna tradita. Si è sentita un po’ ingabbiata da quei ruoli? Pensa che quello di questo film possa dare una svolta ulteriore alla sua carriera?

M. B.: Ultimamente ci sono stati dei ruoli, dei personaggi femminili forse troppo legati al sentimento. Figure di donne tradite o non amate. Non sto rinnegando nulla e non voglio neanche parlare male del lavoro che ho fatto. Adesso spero che con questo film mi sia abbondantemente riscattato da questo passato che non rinnego. Spero che questo film mi faccia uscire da questo tunnel quale mi ero cacciata.

Signor Albanese ha avuto un pensiero per quella persona che si è suicidata la scorsa settimana per motivi di lavoro? In fondo anche il suo personaggio poteva fare la stessa fine.

A. A.: La cosa che mi sconvolge di più di tutta la situazione è che, quando ho appreso la notizia, non sono neanche stato sorpreso. La situazione dei lavoratori di oggi è tale che una notizia del genere non sorprende neanche più. Del resto avendo lavorato in quell’ambiente e continuando a frequentare gli amici che per gran parte fanno parte di quell’ambiente, conosco bene la situazione. Per questo la sceneggiatura mi è sembrata davvero molto bella. Perché rappresenta la situazione e non si permette di giudicarla. Dà un’onesta rappresentazione della cosa.

S. S.: Questo dipende anche molto da come è stato scritto il film. Creare dei personaggi e poi limitarsi a seguirli nella loro evoluzione non permette giudizi sulla situazione. È come se la storia ti portasse, ti trascinasse. Tutto il loro percorso è legato a questa considerazione. Per buona parte del film essi non fanno che farsi del male. Poi alla fine si pongono seriamente il problema: “Qual è la cosa cui veramente tengo di più?” E sulla risposta si chiude il film.

E su questo ci sembra giusto chiudere anche la cronaca di questa conferenza stampa densa e piena di spunti di riflessione interessanti.


CAST & CREDITS

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