Festa del cinema di Roma 2007 - Le deuxieme souffle - Concorso
La scienza ha ucciso il noir. Indagini dei Ris, confronto senza appello di tracce di impronte, infinitesimali scie e gocce di sudore che inchiodano autori di delitti perfetti, inappellabili scoperte di dna, da qualche tempo danno filo da torcere a sceneggiatori e soggettisti, sempre più alle prese con la ‘veridicità’ che la scienza impone nel cinema di genere. Se da un lato possono dichiararsi fuori dai giochi film di genere horror o d’azione, non è così per il genere più legato all’immanenza dei fatti che racconta. Il noir deve stare al passo con i tempi e le investigazioni marlowiane diventano un mero riverbero cinefilo: dimentichiamo rocambolesche evasioni, esecuzioni rituali e incontri della malavita in appartamenti abbandonati, latitanze fatte di sacrifici e di fughe continue. Il noir ormai è morto, ucciso dai Ris e dai vari Csi.
Coraggioso, bisogna ammetterlo, il film di Alain Corneau, che ha aperto la seconda edizione della Festa del Cinema di Roma: coraggioso nell’affrontare un genere che, a parte alcuni rari episodi felici (39 Quai des Orfevres di Olivier Marchal, e il nostro recente Arrivederci amore, ciao, di Michele Soavi), non riesce a trovare storie che non affrontino in primo piano l’aspetto scientifico dell’investigazione, tralasciando quasi del tutto il lato umano della logica, dell’intuizione e dell’umanità del singolo investigatore against all odds. Coraggioso, perché Corneau porta sullo schermo il remake di un capolavoro come Le deuxieme souffle (uscito in Italia con il titolo Tutte le ore feriscono..l’ultima uccide) firmato nel 1966 da Jean-Pierre Melville. Al centro di tutto, una storia vera descritta nel romanzo omonimo di Josè Giovanni, un ex galeotto di origini còrse autore anche del romanzo Le trou, da cui Jacques Becker al tramonto della vita trasse il bellissimo Il buco. La storia di Gustave ‘Gu’ Minda, evaso da una condanna all’ergastolo, desideroso di vivere con la sua donna Mamouche e impegnato nell’ultimo colpo prima del definitivo ritiro all’agognata latitanza. Difficile sostenere che il film di Corneau sia realmente riuscito: la scelta di Daniel Auteuil per la parte del gangster ‘Gu’ appare in questo senso frutto di un’assodata logica commerciale: laddove Lino Ventura riuscì nel capolavoro di Melville a tratteggiare la figura di un personaggio che rappresentava la fine di un’epoca, con il suo incedere ciondolante, lo sguardo assente e malinconicamente destinato all’ombra, l’attore di Cachè si impegna senza sosta nel risultare simpatico al pubblico piuttosto che funzionale alla storia. Proprio nel volto di Auteuil risalta infatti la debolezza dell’operazione nostalgica compiuta dal pur eclettico Corneau. Una dolcezza dello sguardo e una carica di ironia troppo verbosamente sottolineata, una sicurezza delle proprie azioni più basata sui dialoghi degli altri personaggi che su ciò che traspare dalla sua interpretazione. Meglio piuttosto il granitico ex calciatore Eric Cantona, che disegna perfettamente il guardiaspalle di origini còrse dalle poche parole e la massima affidabilità.
La reale forza del film, pur nella sua eccessiva lunghezza temporale, risiede nell’accuratezza di un tappeto di dialoghi che, pur essendo studiato a tavolino, ha il respiro della letteratura di genere, tragico e senza catarsi dei libri della saga marsigliese dei romanzi del compianto Jean Claude Izzo, permeati da un minimalismo che sa di ruvida concretezza. "Quelli che sopravvivono hanno sempre ragione”, sentenzia il commissario interpretato da un trattenuto Michel Blanc, personaggio poco sfruttato nel film, che dà la caccia all’evaso Gu più per un sentimento di dovere che per reale accanimento da poliziotto a senso unico. La macchina da presa si muove in continuazione, fluida nelle sue virate delle carrellate laterali, negli improvvisi avvicinamenti da steady cam, nelle (troppe) immagini sghembe notturne. Un noir che si adegua allo stile di Hong Kong (che Melville e i paladini del polar hanno a loro volta contribuito a creare), cercando, a differenza dei cugini orientali, una maggiore aderenza realistica, con i suoi ralenty e i dolly vertiginosi. Proiettili che disegnano le traiettorie (Matrix?..), schegge di legno e fiotti di sangue, pistole in aria e corpi che fendono l’aria, smorfie di morte catturate dal rallentamento della pellicola, come in un piccolo manuale di istruzioni della sparatoria. Una fotografia che esalta i colori accesi dell’interno rosso del locale di Mamouche (Monica Bellucci) e del suo casco di capelli biondi, massiccio e imponente come il peso della vita che ha scelto di intraprendere, a fianco di malavitosi che la morte sostituisce senza sosta. Anche se non del tutto riuscito, Le deuxieme souffle riesce in alcuni momenti a trasportare lo spettatore smaliziato in un’altra epoca, in un mondo di codici d’onore ed eroi dalla faccia sporca. Peccato che la faccia principale sia quella pulita-pulita di Daniel Auteuil.
(Le Deuxiéme souffle); Regia: Alain Corneau; sceneggiatura: Alain Corneau da un romanzo di Josè Giovanni; fotografia: Yves Angelo; montaggio: Marie-Josèphe Yoyotte; musica: Bruno Coulais; interpreti: Daniel Auteuil (Gu), Monica Bellucci (Manouche), Michel Blanc (Blot), Jacques Dutronc (Orloff), Eric Cantona (Alban); produzione: Michèle Pétin e Laurent Pétin per la ARP e la TF1 Films Production; distribuzione internazionale: Wild Bunch; origine: Francia, 2007; durata: 156’; web info: www.wildbunch-distribution.com
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