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Festa del cinema di Roma 2007 - The universe of Keith Haring - Extra

Pubblicato il 19 ottobre 2007 da Alessandro Izzi


Festa del cinema di Roma 2007 - The universe of Keith Haring - Extra

C’è una cosa che accomuna un artista eccentrico come Keith Haring e la Festa del cinema di Roma: il desiderio di comunicare, di aprirsi al grande pubblico, di mantenere un alto grado di visibilità che non sia, però, anche una “svendita” delle proprie ragioni artistiche.
Mentre però l’autore americano partiva dalla considerazione che le persone normali non vanno al museo ed è, quindi, necessario trovare un modo per portare l’Arte direttamente da loro (di qui il ricorso ai murales, ai graffiti e a qualsiasi altro mezzo di comunicazione diretta), la Mostra cinematografica che ha il suo cuore pulsante nell’Auditorium Parco della Musica tenta di santificare e rendere popolare la sala, di recuperare il fascino magico del grande schermo cinematografico in opposizione al moltiplicarsi indifferenziato dei mezzi di diffusione dell’immagine (dai telefonini, ai minischermi dei palmari).
Due direzioni simili eppure diverse, entrambe percorse dal desiderio di recuperare un contatto fattivo con la gente, di ritrovare il tempo in cui sia l’Arte che il Cinema erano riti collettivi che coinvolgevano e colpivano il più gran numero possibile di persone.
Non stupisce allora che la seconda edizione della Festa del Cinema di Roma decida di omaggiare Haring con la proiezione di un documentario che ne ripercorra la vita (e l’opera) con una sguardo ora complice, ora commosso, ma mai, o quasi (ed è qui il grosso limite dell’operazione) concretamente critico.
Il film non è, e questo va debitamente sottolineato, uno studio sull’Haring autore; non è, né vuole realmente essere, una riflessione sincera e spassionata sul significato che l’opera dell’artista ha avuto nella società superficiale e vacua degli anni ’80 non solo americani. Al contrario, ci pare essa sia un tentativo di avvicinarsi, con quella lucida compenetrazione guidata dall’affetto e dall’ammirazione incondizionati, ai misteri di un uomo che ha fatto della voglia di dire una bandiera e del bisogno di fare una religione.
Keith Haring non era un artista in senso tradizionale. Per lui l’atto del creare non rappresentava un momento isolato e sacro della sua vita personale. Per lui dipingere e respirare erano letteralmente una cosa sola ed era difficile riuscire davvero a pensare di poter accettare di essere pagato per un atto, quello creativo, che urgeva sulle sue dita con un’impellenza quasi sessuale. Bastava l’incontro casuale tra un muro bianco e qualche bomboletta di vernice perché un’opera prendesse subitamente corpo, nel giro di pochi minuti. E non c’era una reale differenza tra la tela destinata a durare nel tempo e il muro che sarebbe stato abbattuto di lì a poche ore: Haring non dipingeva per “durare” nel tempo, ma per “essere” nel tempo. O, più semplicemente lo faceva perché non sapeva fare altro.
Soprattutto amava dipingere per gli altri davanti agli altri. Desiderava, anzi agognava vedere le reazioni del pubblico messo di fronte al mistero semplice del formarsi dell’opera d’arte. Aveva, in effetti, bisogno che la sua azione di pittore diventasse spettacolo, assumesse anche una durata nel tempo. Spogliato di ogni residuo di intellettualismo Haring puntava su un’Arte che fosse gesto vitale destinato a portare gioia di vivere a tutte le persone. Un messaggio universale utopico che si porta dietro, ma questo il documentario non ce lo mostra mai davvero fino in fondo, tutta la dimensione naif e un po’ superficiale degli anni ’80 persi nella crisi dei valori del ’68 e pronta a precipitare nel buio orrore degli anni dell’AIDS.
Da quanto detto sinora si capisce chiaramente quanto l’arte di Haring, anche se fissata sulla superficie dei muri o tra le tele cerate del suo periodo migliore, aspiri al “movimento”, assuma la dimensione di un evento irripetibile che respira e vive tutto “in mezzo” alla gente e con la gente. L’arte del pittore, infatti, non si ferma nel chiuso delle opere finite, ma al contrario vive nel suo farsi. In Haring l’atto del dipingere è esso stesso parte integrante dell’opera e quello che resta alla fine, quando il pittore ha posato i suoi pennelli e se ne è andato, è solo il residuo dell’atto creativo. Una parte certo fondamentale del tutto, ma non più il tutto.
La messa in film di questo gesto creativo, il porlo al chiuso di una proiezione che lo priva di irripetibilità e lo definisce in una forma per sempre chiusa è, quindi, anche una messa a morte di Haring e della sua opera. Una messa a morte voluta ed agognata dallo stesso pittore visto che era lui per primo a voler essere ripreso e filmato mentre dipingeva quasi fosse consapevole che questo era l’unico modo per tentare di lasciare di sé un’immagine che fosse più vicina allo spirito di un’opera che moriva nel momento in cui era ultimata. Perché la comunicazione in sé era più importante della cosa comunicata. O meglio essa diventava parte costituente del messaggio affidato all’opera. Da un certo punto di vista era e l’opera e il suo messaggio.
La Clausen non sempre sembra essere consapevole che il suo film pregevole, ma poco critico, sia dalla prima all’ultima inquadratura una poderosa Messa da Requiem che, come tutte le messe per i defunti, cantando la morte riscopre la vita. Tentando di definire la vita che ancora pulsa nell’opera di Haring, la regista scopre, così, ad ogni passo quanto essa sia superbamente morta. Ma nel far questo ci lascia anche davanti agli occhi un documento umano, spesso troppo odoroso di agiografia (e questo è un limite grosso), ma sempre denso ed affascinante. E così, quasi senza accorgersene, il film perde la sua dimensione di discorso su Haring e diventa un estremo discorso di Haring. Perché come abbiamo detto per il grande artista americano la voglia di dire “era” il discorso e raccontarla è, di fatto, proseguirla.


CAST & CREDITS

(The universe of Keith Haring); Regia: Christina Clausen; sceneggiatura: Christina Clausen, Gianni Mercurio; montaggio: Silvia Giulietti; musica: Angelo Talocci; produzione: OVERCOM, Absolute Film, French Connection, in cooperazione con “The Estate of Keith Haring” (New York); origine: Italia/Francia, 2007; durata: 82’


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