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Biagio

Pubblicato il 7 febbraio 2015 da Alessandro Izzi
VOTO:


Biagio

Tutto il cinema di Pasquale Scimeca è, in fondo, una riflessione sull’atto stesso di raccontare.
Al centro di tutto non c’è tanto il “come”, che resta comunque una preoccupazione di non poco conto per un cinema che si sogna nelle stesse dinamiche del contastorie medioevale, quanto piuttosto il “perché”.
La tensione estetica, quindi, resta, ma è subalterna e quasi secondaria rispetto all’esigenza etica del dire.
Prima di cominciare a girare, infatti, è fondamentale per il regista capire quanto sia importante quel film che fino a quel momento è rimasto solo nella sfera dei sogni che è bello fare di notte, quanto conti, quanto possa essere esperienza trasformativa sia per lo spettatore che lo esperisce, sia per lo stesso autore che lo realizza.
Se un film non è importante per davvero, per Scimeca, allora non vale neanche la pena girarlo. Meglio che se ne resti, piuttosto, nell’inespresso, nel chiuso dei progetti monchi, degli abbozzi che rendono travagliati i sonni di chi pensa sempre per immagini.
Solo se un film è davvero importante, solo se ha dalla sua la volontà di incidere sul sociale, di aiutare per davvero le persone, solo allora il film può essere girato e solo allora possono venire le prime riflessioni sull’estetica che deve veicolare questa esigenza etica.
Se l’etica è forte, l’estetica verrà di conseguenza, se il bisogno è importante e urge sulla pelle, allora l’immagine che la veicolerà non potrà che essere altrettanto bruciante.
Ma il film, ci informa la voce fuori campo che apre il film, è anche frutto di tanti piccoli compromessi col Reale. Compromessi che diventano grandi mano a mano che avanza la lavorazione. Grandi tanto da rischiare di compromettere il senso dell’operazione nella sua interezza.
Filmare è sempre cominciare una partita a braccio di ferro con il Tempo. E, se è vero che ogni film non è mai finito, ma solo interrotto, allora è anche vero che le cineteche sono piene di film che sono, ma avrebbero voluto essere altro.

La storia di Biagio è bella e importante. Scimeca non l’avrebbe girata altrimenti. Gli urgeva sulle labbra come quella di Placido Rizzotto. E l’ha girata con la stessa calma fretta.
Aveva anche un’attualità bruciante che lo rendeva particolarmente urgente.
È la storia di un nuovo San Francesco che, a un certo punto della sua vita, si sente chiamato ad altro e, lasciati tutti i suoi averi, si mette in viaggio. Va prima nei boschi, tra bacche che lo fanno stare male e il bisogno di costruirsi un rifugio con dei rami. Poi, per una breve stagione, aiuta a sorvegliare un gregge di pecore in cambio di cibo, alloggio e un pizzico di affetto fraterno. Infine si mette in marcia per Assisi, nella speranza che il santo poverello dall’alto degli affreschi di Giotto gli indichi la direzione.
In mezzo al percorso che avrebbe fatto la gioia di Rossellini, tanto più che è una storia vera, ci sono le immagini dei barboni veri di Roma Termini e di quelli di Palermo, ci sono gli echi delle idee di una Chiesa che ha bisogno di rinnovamento e c’è una società italiana indifferente e stanca.

È encomiabile il tentativo di Scimeca di togliere retorica dalle immagini, di raccontarci questa storia di fioretti francescani cercando un’immedesimazione quasi verghiana con questi poveri figli del nostro rimosso.
Ma da un certo punto in poi anche l’autore deve aver sentito che il film gli scappava dalle dita, che l’immagine a colori dei giorni nostri non riusciva a farsi portatrice di un’aura di divino.
Deve aver sentito che il realismo piano di un uomo che si mette in cammino e sempre più somiglia ai barboni che evitiamo di guardare quando li incontriamo in mezzo alla strada, non riusciva a contenere quel nocciolo di pazzia che c’è in ogni storia di santità.
Deve aver sentito che la giusta distanza non sempre riusciva a trovarla anche perché l’occhio dello spettatore contemporaneo si è troppo abituato appunto a scappare e non è facile invitarlo invece a soffermarsi.
Deve aver sentito che era nella stessa posizione di quel monaco zoppo che, nel cercare di raccontare come il suo maestro pregasse danzando, si trovava a danzare anche lui, finalmente guarito. Ma deve aver intuito anche che, invece di danzare, rimaneva un poco zoppo e un poco goffo.
Quel che si può dire a merito di questo regista più importante di quanto non sembri è che, nell’intuire le ragioni del suo possibile fallimento, ha avuto però la forza di farle oggetto di discorso. In questo modo il film gli è diventato tra le mani una riflessione sulla necessità di parlare del sacro con i mezzi del cinema.
Meno, probabilmente, di quanto lui stesso avrebbe voluto, ma, in fondo, è questo un destino comune a quasi tutti i film.


CAST & CREDITS

(Biagio); Regia e sceneggiatura: Pasquale Scimeca; fotografia: Duccio Cimatti; montaggio: Francesca Bracci; musica: Marco Biscarini; interpreti: Marcello Mazzarella, Vincenzo Albanese, Renato Lenzi, Omar Noto, Doriana La Fauci, Silvia Francese; produzione: Arbash; origine: Italia, 2014; durata: 90’


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