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Il segreto del suo volto

Pubblicato il 23 febbraio 2015 da Alessandro Izzi
VOTO:


Il segreto del suo volto

Cronaca di un ritorno impossibile, potrebbe essere questo il sottotitolo ideale di Il segreto del suo volto (più suggestivo il titolo originale Phoenix) di Christian Petzold.
Cosa significa ritornare dai campi di sterminio? Cosa vuol dire ritornare in quel paese amato, ma che era stato fermo a guardare mentre la polizia prelevava le persone dalla case e le faceva salire sui treni piombati? Come è possibile tornare con il desiderio di perdonare? O peggio ancora di ricominciare esattamente lì dove la vita di prima si era interrotta?

La letteratura sulla Shoah è densissima e ormai sul punto di riempire intere biblioteche, eppure sono relativamente pochi, anzi pochissimi, i libri che dell’infinito strazio dei binari che scompaiono nella nebbia hanno scelto di raccontare l’odissea del ritorno a casa.
In Italia Primo Levi l’ha fatto quasi subito, come sempre in anticipo sui tempi, con La Tregua che è una pietra miliare della letteratura memoriale. In Israele, su un versante romanzesco, Ka Tzetnik 135633 ha dedicato pagine memorabili all’incubo con un’altra fenice venuta dal Lager che neanche lo psicologo riesce ad aiutare nel lento, doloroso processo di reinserimento. E poi, tra le poche altre cose, c’è il romanzo francese, Le retour des cendres di Hubert Monteilhet, da cui Petzold ha preso spunto, spostandone l’azione in terra tedesca, per questo film bellissimo e densissimo.

Parlare di ritorno in Germania è già di per sé una scelta che si riverbera tra le immagini creando infiniti altri echi. Come un sasso lanciato nello stagno che crea cerchi concentrici che si allargano alludendo continuamente ad altro.
Perché un ritorno in Germania per una donna ebrea è di per sé è un controsenso, un racconto di distanze che l’orrore ha fatto ormai incolmabili.
La domanda che più spesso Nelly, questo il nome della protagonista, si sente ripetere dalle persone che incontra, anche da quelle che non hanno un passato nazista alle spalle è, infatti, quando se ne andrà in Palestina, quando lascerà definitivamente quella terra maledetta che ha partorito l’abominio delle camere a gas.
La complicazione dell’odissea della donna non è solo che la patria non esiste più cancellata dai bombardamenti e dalla sconfitta in guerra, ma nasce dal fatto che quella stessa terra la rifiuta perché la sua sola presenza è un atto di accusa imprescindibile per i crimini contro l’umanità dei pochi e per l’indifferenza complice dei tanti. Del resto è ancora il tempo in cui i sopravvissuti, sporchi e laceri, erano l’invisibile rimosso: la presenza da ignorare per quieto vivere (come fa il proprietario della birreria che appena vede Nelly gira sui tacchi e se ne va) e non un ricordo con il quale confrontarsi.

Nelly, però vuole tornare. Vuole ritrovare quel marito che, si scopre quasi subito, l’ha addirittura tradita. Vuole rimettersi in piedi esattamente nel posto dove è caduta, ma, e qui stanno gli incagli, non ha più una casa e non ha più un volto, distrutta la prima dalle bombe, la seconda da un colpo d’arma da fuoco che l’ha lasciata sfigurata. Anzi, poeticamente, casa e volto sono un cumulo di macerie e, quando la donna va a cercare tra i mattoni la prima, è il secondo che vede riflesso nei frammenti di uno specchio.
L’operazione di chirurgia estetica cui si è sottoposta non le ha restituito esattamente i lineamenti di una volta, ma, soprattutto, l’orrore dei campi le ha cambiato modo di fare, le si è impresso sul modo di camminare, di mangiare, di parlare.

Senza volto, senza casa Nelly non esiste, quindi, se non nel suo disperato bisogno di tornare. E quando il marito non la riconosce, ma le chiede, come in La donna che visse due volte, di interpretare il ruolo della moglie per poter entrare in possesso dell’eredità, lei accetta perché le sembra, attraverso lui, di poter tornare a quel gomitolo di ricordi che erano stati la sua felicità.

Il tema dell’identità è il punto di fuga di una prospettiva vertiginosa su uno degli eventi più oscuri del secolo scorso che resta rigorosamente e rispettosamente fuori dall’inquadratura.
Nelly era, infatti, una di quelle ebree che non sapevano di esserlo finché non sono state schedate.
Uscita dal campo continua a non sentirsi ebrea e cerca se stessa nel suo essere stata moglie.
Rotti o fatti mendaci tutti gli specchi, può trovare la sua immagine riflessa solo negli occhi del marito. E quando il marito comincia ad istruirla per renderla più somigliante alla Nelly delle foto accetta con dolore questo patto faustiano perché solo lo sguardo di lui può restituirla all’immagine del suo passato.
Ma per far questo deve accettare di annullarsi, fingersi Esther, dire di essere un’altra per continuare ad interpretare se stessa.

Tutta la parte della costruzione della finzione è il momento più metaconsapevole della pellicola. Johnny, il marito, costruisce un set, le regala dei costumi, la trucca, le assegna le battute come stesse preparando la scena di un melodramma a lieto fino che, come tutti i film, è al fondo falso perché nessun sopravvissuto torna dai campi con indosso i vestiti francesi e le scarpe di cenerentola che lui vorrebbe. Una falsità di fondo che poggia contro il non detto e il non dicibile dell’orrore della Shoah. Un copione inaccettabile di un film di serie B che rappresenta quello che il tedesco medio avrebbe voluto vedere invece di continuare a fingere di ignorare l’ombra dei sopravvissuti dall’altro lato della strada.

Phoenix racconta, con sguardo al passato e in potente technicolor, di quanto sia difficile per la cultura tedesca rapportarsi all’orrore del proprio passato. Lo fa con un rigore di messa in scena notevole, senza aderire al punto di vista di nessuno dei personaggi che mette in campo. E consegna agli annali un ritratto potente dell’ipocrisia di un coro di testimoni che rifiutarono di vedere prima e anche dopo perché, come dice Johnny a Nelly, "nessuno chiederà dei campi, nessuno vuole veramente sapere".
Soprattutto compone un ritratto femminile destinato a scolpirsi nella memoria, grazie alla superba interpretazione di Nina Hoss, attrice qui davvero straordinaria.
Un’opera densa di amore cinefilo in cui ogni citazione, ogni omaggio si amalgama al tutto in cerca prima di ogni altra cosa di senso di racconto.


CAST & CREDITS

(Phoenix); Regia: Christian Petzold; sceneggiatura: Christian Petzold, Harun Farocki; fotografia: Hans Fromm, BVK; montaggio: Bettina Böhler; musica: Stefan Will; interpreti: Nina Hoss, Ronald Zehrfeld, Nina Kunzendorf, Rystan Pütter, Michael Maertnes, Imogen Kogge; produzione: Florian Koerner von Gustorf, Michael Weber; origine: Germania, 2014; durata: 98’


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