Fiction Italia - Crimini (2)

C’è un’intuizione non da poco alla base dell’interessante progetto di Crimini. La serie, attualmente in onda su RaiDue con gli episodi della seconda stagione, nasce dall’idea di attingere, in fatto di soggetti, da quella fucina creativa di successo che è la contemporanea narrativa italiana di genere noir/poliziesco. Così, affiancando a popolari scrittori che rispondono, tra gli altri, ai nomi di De Cataldo (che per entrambe le stagioni ricopre il ruolo anche di story editor), Carofiglio e Lucarelli, un team di sceneggiatori che adattino le pagine letterarie per il piccolo schermo, si ottiene l’originale formula alla base di questo prodotto targato Rodeo Drive Media.
Serie antologica vecchio stile, vista la differenza con la contemporanea produzione televisiva che prevede ben altre forme di serialità, Crimini si compone, in realtà, di veri e propri film tv di cento minuti circa, che non presentano legami tra loro se non, evidentemente, la denunciata appartenenza a uno stesso colore di genere. Ogni film è ambientato in una diversa città italiana, nell’intento di creare un’originale mappatura fatta di noir stories che trovano la propria peculiarità esattamente nel legame esclusivo con una diversa territorialità e la sua specifica condizione sociale. E qui, in fondo, Crimini non fa che sfruttare e mettere in serie, per l’appunto, una delle caratteristiche più evidenti del racconto/romanzo poliziesco all’italiana: il rapporto con il territorio e i costumi.
Ma se l’idea che si trova alla base di questo progetto supplisce alla mancanza di originalità in cui sembra versare la fiction italiana destinata alla televisione generalista producendo, nel caso specifico, intrecci di genere gustosi e anche un poco complessi, forse è proprio nel tentativo solo abbozzato di disegnare rapporti con le città che Crimini mostra maggiormente la corda. È chiaro che il ritratto sociologico non sta nemmeno in partenza nei soggetti, ma forse troppo spesso, soprattutto nella prima stagione, le città in cui sono ambientati i film finiscono per essere poco più che scenari illustrativi. Complice il lavoro dei seppur diversi registi che firmano ciascun film, i monumenti, i panorami e i luoghi cittadini diventano intarsi da cartolina, senza riuscire a fare tutt’uno con le vicende che raccontano. Fa la differenza, in questo senso, Il covo di Teresa (diretto da Stefano Sollima, da un racconto di Diego De Silva), film della prima stagione, in cui emerge con maggiore forza, rispetto al resto della serie, il condizionamento di un territorio come quello napoletano. Nella seconda stagione la miglior cura fotografica e il diverso estro nel confezionare inquadrature degli angoli delle città restituiscono una maggiore sensibilità nei confronti di tale aspetto.
Il mood di Crimini, in ogni caso, fa felicemente suoi aspetti del noir/poliziesco all’italiana, come un certo gusto per l’ironia, che spesso si sprigiona, come è ovvio, tra le mura di un commissariato e nelle figure degli uomini dell’arma. Nel caso, ad esempio, dei film firmati dai Manetti Bros., una certa comicità riempe le battute dei personaggi, rispettando lo stile dei due registi, congeniale all’anima meno seriosa della serie. In generale, comunque, i toni dei lavori stazionano, si potrebbe dire, tra il giallo e il noir, con momenti di tensione ed attenzione ai risvolti maggiormente “morbosi” tratteggiati con più convinzione rispetto a come siamo abituati a vedere nella televisione generalista, ma in misura minore e risultati diversi rispetto a Il mostro di Firenze, capace, quest’ultimo, di costruire spannung narrativi più che convincenti, sfruttando a pieno il legame con fatti di cronaca realmente avvenuti.
L’aspetto maggiormente fascinoso di Crimini rimane comunque il suo tratto originale: il rapporto con la narrativa e la scrittura (di genere) che il primo film della seconda stagione, La Doppia vita di Natalia Bloom (tratto da un racconto di Gianrico Carofiglio e diretto da Anna Negri), tematizza in una specie di manifesto doppiamente metanarrativo. La costruzione sicura di un intreccio che, per definizione, in un genere così altamente codificato ha bisogno di pesi e contrappesi, seppur non avulso da qualche ingenuità sparsa qui e là nei film, riesce a mantener lo zoccolo duro dei racconti d’autore da cui la sceneggiatura si sviluppa, all’insegna di un’italianità che, per una volta, possiamo associare a buoni risultati. E ciò accade proprio sul terreno fatto di investigatori, commissari e (finti) misteri, che sembrava, dopo anni di fiction generaliste, proprietà esclusiva di prodotti spesso appena modesti.
