Fiction Italia – Le cose che restano

È la conclusione di un percorso iniziato più di dieci anni fa, quest’ultimo capitolo della saga italiana scritta da Stefano Rulli e Sandro Petraglia per quella grande madre che – volenti o nolenti - è la RAI. Giacché Le cose che restano è l’ultimo passo di un cammino cominciato nel 1999 con La vita che verrà (diretta da Pasquale Pozzessere) e proseguito nel 2003 con la celeberrima e da più parti sopravvalutata La meglio gioventù (con la mediocre regia di Marco Tullio Giordana).
Il primo passo è stato quello compiuto dai Padri fondatori dell’Italia moderna: la crescita ritratta osservando una famiglia povera, colta lungo lo svolgersi del Boom economico, emblema del lavoro e dell’arricchimento di un intero popolo appena uscito dalle macerie della guerra e dell’arretratezza. Poi il secondo passo: le vite dei loro figli, tra gli anni Sessanta e i Novanta, tra i sogni di rivoluzioni che andranno a sbriciolarsi, finendo risucchiati nel riflusso culturale e sociale e nel disorientamento della generazione cui appartengono i due stessi autori. Ora, invece, un passo che copre un arco di tempo assai più breve: ovverosia il nostro presente, un paio di anni nei quali si assiste a un nuovo inizio, possibilità di un futuro foriero di prospettive, di cambiamenti e di aperture verso l’esterno, per un Paese morente che, piuttosto, possa ritrovare una strada per rinascere, riappacificandosi innanzitutto con sé stesso, con la sua essenza e la sua interiorità.
Tre opere, tre miniserie che vanno a formare un imponente monumento alla capacità di racconto del mezzo televisivo. E, senz’altro, proprio l’ultima parte del trittico rimarrà nella memoria come uno dei lavori migliori, anzi come una delle poche creature veramente degne, per questa coppia di sceneggiatori che ha segnato in maniera indelebile l’Italia cine-televisiva dell’ultimo trentennio.
Ma le Le cose che restano non è un sequel de La meglio gioventù, così come non è vi è nessun legame di parentela tra le famiglie raffigurate nei tre diversi ritratti: in questo modo lo sguardo d’insieme ha potuto assumere contorni più sfumati, quelli di una maggiore astrazione, disegnando la famiglia in quanto cellula attraverso la quale osservare l’Italia, e non una sola famiglia, che avrebbe potuto dare una visione particolare e più ristretta.
Questa volta al centro della narrazione vi è la famiglia Giordano, romani appartenenti al ceto borghese: il padre Pietro (Ennio Fantastichini) è un ingegnere, mentre la madre Anita (Daniela Giordano) è un medico che da anni ha lasciato la propria professione. Insieme hanno messo al mondo quattro ragazzi, che ora hanno dai circa trentacinque ai diciotto anni: Nora (Paola Cortellesi), psicologa, sposata e in attesa del primogenito, primo nipotino dei Giordano; Andrea (Claudio Santamaria), impiegato del Ministero degli Esteri, sempre in giro per il mondo, un uomo cui non interessa mettere radici; Nino (Lorenzo Balducci), laureando in architettura, il ribelle della famiglia, orgoglioso e moralista, oltre che umbratile; infine Lorenzo (Alessandro Sperduti), studente di liceo dal carattere pieno di gioia.
Ma, come negli altri due episodi della saga, anche qui la famiglia verrà divisa: questa volta dalla tragedia di un evento luttuoso che manderà i Giordano letteralmente in frantumi; e, accaduto ciò, ognuno di loro intraprenderà una propria, personale, strada.
È un piccolo miracolo all’interno del palinsesto generalista, Le cose che restano, in un’annata comunque che, nell’ambito del racconto di finzione, sugli schermi RAI qualche soddisfazione aveva già saputo regalarla. Un prodotto toccante e commovente - ma senza esserlo in modo ricattatorio - un lungo film per la televisione (presentato alla stampa in tutta la sua interezza, ossia nella ragguardevole durata di sei ore, così come accaduto in occasione della proiezione per il pubblico al recente Festival Internazionale del Film di Roma), un’opera unitaria il cui ampio respiro si sofferma sulle piccole cose, sui particolari, sui cosiddetti moti dell’animo e sui dolori che possono dilaniarlo; un racconto sommesso, controllato e mai urlato, eppure dirompente come il primo vagito di chi vuol far sentire di essere (ri)nato. Un racconto che tende più a togliere che ad aggiungere, a suggerire più che a narrare didascalicamente. E, grazie a tale approccio, tutto scorre alquanto fluido e libero, senza incontrare troppe costrizioni o troppe inutili sottolineature, poiché lo sguardo è lasciato libero di vagare come di soffermarsi, di pensare autonomamente e di partecipare, stimolato a prestare attenzione e a interrogarsi per riuscire a entrare fin dentro il nocciolo del contenuto portato in scena.
Di certo, comunque, non è difficile riconoscere il tocco di Gianluca Maria Tavarelli, divenuto un emblema della cosiddetta (ma sicuramente ancora troppo poco numerosa e frequente) tv d’autore italiana, il quale già anni fa ci aveva regalato un’altra gemma, ossia Paolo Borsellino (per Mediaset, su un copione firmato anche da Giancarlo De Cataldo), un lavoro che con delicatezza e pudore aveva trattato del lato più intimo e più nascosto di un individuo e della sua famiglia. Un regista, Tavarelli, che sa usare la giusta misura, bravo nello scegliere attori capaci e bravo nel saperli dirigere. Soprattutto è da antologia (già come in Borsellino, se non di più) la rappresentazione del dolore, un grido sommesso che tutto distorce, che può fare impazzire, che può convincere ad abbandonare e ad abbandonarsi, a fuggire dalla realtà: in entrambi i casi comunque con la possibilità di ritrovare, se non gli altri, perlomeno sé stessi.
Ritrovarsi, quindi: nella propria casa, nella propria famiglia, nel proprio Paese. Ma solo dopo l’incontro con l’Altro: che possa essere una donna più grande come due profughe irachene, oppure un partner con cui costruire qualcosa, o un figlio inaspettato di cui prendersi cura. In ogni caso si tratta di un percorso necessario per uscire dai propri confini fisici e mentali, per vivere come una redenzione: accettare lo ’scandalo’ insito nell’incontro con l’altro, affinché si possa cambiare grazie a lui. Che si tratti o no dell’anima gemella. Un ’essere altro’ che viene lasciato avvicinare al sé, ma senza denotarlo come ’esotico’: difatti, sempre grazie al carattere minimale della narrazione, Rulli, Petraglia e Tavarelli sono riusciti a raccontare, tra le altre storie d’amore, anche quella di una coppia omosessuale, due uomini e due interpretazioni che rifuggono qualsiasi cliché, qualsiasi luogo comune, divenendo uno dei punti più luminosi dell’intera miniserie, tanto che si è consci di avere assistito allo svolgersi di una storia d’amore, pura e delicata come non mai, e non di una storia tra omosessuali.
Ma cosa rimane del ’68 in un’opera che tratta dei figli dei figli del ’68? Di politica in Le cose che restano ve ne è: però tutto ora è un fatto più privato, giacché quelli odierni probabilmente sono tempi diversi, da anni oramai. Ma accenni contro l’ipocrisia delle guerre che vorrebbero esportare la democrazia, questi sì ve ne sono. E l’Iraq anche, poiché da lì provengono le due donne, madre e figlia, che diventeranno fondamentali nel corso della storia, mentre molti sono i profughi che sbarcano in Sicilia, solo per essere ricacciati via, ospiti attesi eppure indesiderati. E poi c’è Nino, il vero protagonista e figura di ragazzo ribelle (il quale, crescendo, vivrà sulla propria pelle le sue contraddizioni) alle cui spalle si staglia la Facoltà di Architettura di Valle Giulia, centro da cui si propagò l’incendio del ’68 romano, una memoria, questa, tra le tante altre memorie che sono un tema portante per l’intera miniserie: «Venire al mondo da adulti è una cosa terribile, è come essere invisibili», dirà Blasi, il bel personaggio del capitano dell’Aeronautica che proprio i suoi ricordi ha perso, a causa di un incidente in Afghanistan. L’oblio, un destino cui certi sembrano essere stati condannati: un anonimato cui, purtroppo, non sono riusciti a scampare i bambini senza nome ospiti di un orfanotrofio degli anni Cinquanta che ora sarà adibito a un nuovo uso, su progetto forse proprio dello stesso Nino.
La famiglia, la casa, la memoria: nel lavoro di Rulli, Petraglia e Tavarelli vi è una perfetta sovrapposizione tra luoghi fisici e mentali, i quali si rafforzano a vicenda. Così come accade per il viaggio, la crescita e il cambiamento - dolorosi e inquieti - l’amore e la conoscenza. E forse sono proprio queste Le cose che restano e che alla fine conteranno, più di tutte le altre.
