Final destination 3

Alla base della serie di Final destination c’è una vera e propria rivoluzione copernicana delle convenzioni del genere horror (nella fattispecie delle convenzioni implicite di quell’abbondante sottofilone che è lo slasher).
Una rivoluzione che si muove su due binari tra loro assolutamente paralleli ma non incompatibili: da una parte (nel pieno rispetto delle regole non scritte del filone) abbiamo, infatti, una totale magnificazione del corpo dei teenagers vittime sacrificali, come sempre, di un disegno assolutamente incomprensibile, dall’altro, (in perfetto contrasto con le dinamiche classiche di questo tipo di narrazione) l’eliminazione dell’ingombrante figura del killer, del mostro artefice delle più inenarrabili efferatezze tanto attese dal pubblico.
Se il corpo dei ragazzi risulta essere, come da convenzione, un piccolo santuario da profanare costantemente, da penetrare e dilaniare nei modi più incredibili, viene a mancare, però, in questo nuovo contesto, una figura capace di incarnare, con le sue fattezze magari coperte da una maschera sanguinaria, quel senso di male assoluto che, in qualche modo, è decisamente mostruoso, ma in qualche misura ancora affrontabile.
Final destination riporta, quindi, lo slasher in un piano astratto: elimina dal piano attanziale del racconto la figura dell’assassino e lascia al suo posto solo una serie di piccoli incidenti che, concatenandosi secondo una logica spietata, portano ad una morte che solo con grande difficoltà possiamo ancora riconoscere (e temere) come delitto. Dal piano del racconto scompare, insomma, il mostro, ma permane, come un’aura metafisica, una motivazione di fondo che spiega il senso di tante morti: una realtà sfuggente ad ambigua che sovrasta il destino di noi tutti e che solo con qualche sforzo logico ci può essere dato di interpretare, spesso solo a posteriori, quando l’evento luttuoso si è già definitivamente consumato.
Se i ragazzi dei vari film di Final destination restano ancora profondamente legati alle dinamiche di una rappresentazione assolutamente steretipata (psicologie a livello zero, assoluta bidimensionalità nella resa dei vari caratteri), l’eliminazione del mostro, che era comunque l’entità esterna contro cui confrontarsi e quindi, alla fine, uno specchio deformante entro il quale vedere riflesse le proprie stesse pulsioni, porta alla creazione di un valore nuovo nel contesto fino a questo punto assolutamente fisico dello slasher: un anelito assolutamente ed incontrovertibilmente spiritualista.
Questa realtà era assolutamente evidente già nel primo Final destination (non a caso ad opera dello stesso regista: James Wong) che è stata opera a lungo in bilico tra le ragioni dell’intrattenimento puro e semplice (che alla fine è risultato vincente) e questa nuova ventata spirituale che spostava la riflessione dello slasher dal terreno ancora franco dei limiti della bestialità umana (quella del mostro, ma anche quella, indotta, delle vittime costrette a scendere allo stesso livello bestiale per non soccombere) a quello più ampio del senso stesso della vita e della morte. Se il regista non avesse ceduto alle lusicghe di un classico finale ad effetto, oggi il primo film della serie si concluderebbe con una nascita, con il venire al mondo del figlio dei due malcapitati protagonisti come a sancire che solo una nuova vita può mandare all’aria i malsani disegni della Morte.
In questo senso il secondo Final destination, con il suo incidente autostradale, con la sua insistenza sulla corporalità assoluta delle vittime a scapito della rappresentazione della Morte come "soffio" o entità a stento percepibile, con la sua ironia terragna e ancora calata nelle dinamiche dello slasher, aveva rappresentato una sorta di passo indietro in questo passaggio dello slasher dalla sfera della fisica a quella della metafisica. E non è un caso che il regista, pur citando brevemente, nei discorsi dei personaggi, il racconto di quanto avvenuto nell’episodio precedente, si riveli poi più di tutto ansioso di voler creare un link forte solo con il primo episodio, quasi a voler mettere tra parentesi, come un mero incidente di percorso, gli esiti della precedente pellicola.
Il terzo episodio, però, pur rimarcando una continuità assoluta con il primo, decide di esplorare dei territori assolutamente nuove ed insapettati. Mentre in Final destination 1, Jame Wong era prima di tutto un intenso pittore di atmosfere fatate, avverando un’incredibile capacità registica nel dare corpo ed anima a tutte gli oggetti che popolavano il set, in Final destination 3 sembra essere prima di tutto interessato ad intessere una comune e plumbea aurea testamentaria che finisce per soffocare tutto.
La metafisica del primo epiosdio, ancora aperta alla possibilità di una qualche forma di speranza, si fa qui incredibilmente cupa e disperata. I movimenti di macchina, che nel primo episodio aspiravano ad una magnificazione delle infinite possibilità espressive del mezzo cinematografico, si limitano qui a rinchiudere, come in una gabbia senza uscita, il destino dei vari personaggi.
La prima vittima sacrificale del terzo episodio della serie è l’ironia (quella stessa che era stata protagonista incontrastata del secondo). Il tono si fa di colpo (e ci si perdoni il gioco) "mortalmente serio" e il discorso sembra voler spostare la propria attenzione verso una società di colpo meno incopevole di quella che era stata protagonista della prima pellicola.
La messe di incidenti assume, così lati lugubri ed apocalittici (o, in altri momenti, si fa così quotidianamente accidentale da cogliere lo spettatore di sorpresa) e l’intero discorso assume ambigue connotazioni profetiche.
Forse James Wong ci sta parlando, tra le righe, di una nuova America più spaventata e, quindi, anche più pericolosa. O forse l’aura testamentaria che permea il tutto è solo il segno di una stanchezza autoriale che mal si piega al meccanismo di sfruttamente seriale di un’idea (e, si sa, il terzo capitolo è sempre quello più difficile). Certo è che l’esplorazione delle possibilità offerte dall’esile spunto di partenza è ormai completata e che sarà difficile, in un eventuale futuro, trovare qualcos’altro di nuovo da dire.
Ma per azzardare previsioni su un possibile (e malaugurato) quarto episodio bisognerà aspettare, purtroppo, gli esiti commerciali del dvd del film.
[marzo 2006]
(Final destination 3); Regia: James Wong; sceneggiatura: James Wong, Glen Morgan; fotografia: Robert McLachlan; montaggio: Chris G. Willingham; musica: Shirley Walker; interpreti: Mary Elisabeth Winstead (Wendy Christensen), Ryan Merriman (Kevin Fisher), Harris Allan (Roller Coaster Attendant), Texas Battle (Lewis Romero), Amanda Crew (Julie Christensen), Sam Easton (Frankie), Patrick Gallagher (Colquitt); produzione: James Wong, Glen Morgan, Warren Zide, Craig Perry per New Line Cinema, Zide-Perry Productions; distribuzione: Eagle Pictures; origine: U.S.A., 2006; durata: 115’; web info: Sito ufficiale
