Final destination 3D

Forse nessun prodotto cinematografico riesce a rendere il senso di perenne braccio di ferro tra ragioni dell’industria e ragioni dell’estetica come i film della serie di Final destination.
I quattro titoli della saga (ma un quinto è già pronto il Pole position per invadere presto i nostri schermi) sono, infatti, rivelatori di intenti in quasi schizofrenico urto reciproco.
Il primo, datato al 2000, era, infatti, un tentativo di fondere le dinamiche dello slasher movie con le atmosfere di un giallo metafisico i cui protagonisti erano più gli oggetti di scena che non gli attori che prestavano il loro volto ai personaggi del racconto. James Wong, regista poi anche del terzo episodio, mescolava divertissment e speculazione filosofica in un meccanismo filmico piuttosto audace per il tempo e il tipo di pubblico cui, in fondo, si rivolgeva. Era, infatti, strano vedere un gruppo di teen agers aggrediti da una precisa successione di cause ed effetti invece che dal consueto mostro munito di maschera e di una non meglio precisata connotazione simbolica. Il braccio di ferro non era, quindi, solo tra vittime e carnefice, ma tra libero arbitrio ed una visione meccanicistica del destino e della morte. L’industria dimostrò di apprezzare lo humor nero che sostanziava il prodotto, ma ne ridusse la portata speculativa imponendo il consueto finale shock che rilanciava il gioco, ma non in vista del sequel.
Qualche anno dopo il seguito arrivò davvero, ma a segno di una più precisa vittoria dell’industria contro le ragioni del pensiero. Final destination 2 era, infatti, un puro divertissment che esasperava la componente splatter e lasciava a casa le atmosfere ambigue del primo episodio. Era, però, sostanziato da un virtuosismo della macchina da presa che non lasciava indifferenti e faceva un poco dimenticare l’idea di base già logora e un po’ stantia. Al timone il regista David Ellis, lo stesso che, per la legge del pendolo, tornerà a dirigere il quarto episodio.
Il terzo episodio, come dicevamo sempre a firma di Wong, era, invece, un tentativo di riportare al centro del discorso la componente speculativa del primo capitolo. Meno virtuosismi di macchina, ma un umorismo più nero, più mortalmente serio, più legato alla descrizione di una società che doveva farsi precisi esami di coscienza dopo il crollo delle Torri Gemelle. Ambientare la scena d’apertura in un luna park dava il segno di un mondo in cui il divertimento si era fatto un po’ orrore ed in cui il gioco sempre sotteso ai film della serie sul mito di Cassandra predittrice inascoltata di sciagure (anche se lì coniugata al maschile) assumeva connotati saturnini ed ambigui.
Ancora al maschile è Final destination 3D, film che segue le oscillazioni del pendolo tra filosofia e spettacolo sin qui analizzate riportando, in precisa successione cronometrica, il quarto capitolo verso la dimensione di puro gioco ludico.
Lo si vede bene sin dalla sequenza titoli che ripercorre le tappe salienti dei delitti più riusciti dei precedenti episodi in forma di simpatiche radiografie tridimensionali. Quel che conta, sin dalle prime inquadrature, quindi, è proprio la logica degli effetti speciali, della trovata grafica, del gusto bizzarro.
Final destination 3D si fonda sulle dinamiche spurie dell’accumulo laddove viene a mancare la forza motrice di un’idea forte di partenza. Tante morti, tante flagellazioni, tanti modi di profanazione del corpo adolescenziale si rivelano sin da subito per quello che sono in realtà: delle variazioni fantasiose su un tema ormai saturato.
Ecco allora che si affacciano sulla scena, variate, idee non abbastanza sfruttate come quella dei reiterati tentativi di suicidio di uno dei superstiti al primo incidente che falliscono tutti per la semplice ragione che non è ancora arrivato il suo turno.
Quel che c’è di nuovo in Final destination 3D è sostanzialmente proprio il formato, lo sfruttamento della profondità per poter aggredire lo spettatore in sala con frammenti di immagine che possano sfuggire all’attrazione gravitazionale dello schermo per farsi portavoce di un coinvolgimento ancor più epidermico del pubblico. Scelta, questa, esasperata nel prefinale metareferenziale che resta la trovata più risaputa, ma anche più efficace di questo non eccezionale nuovo capitolo. Un gioco, quello della tridimensionalità, che spesso colpisce il bersaglio, ma che non aggiunge nulla di nuovo a quanto già visto nelle precedenti puntate e che va ad urtare contro i palesi limiti di un cast non brillante forse ulteriormente penalizzato dal doppiaggio italiano.
E se il messaggio finale è davvero che, nell’eterno braccio di ferro tra libero arbitrio e destino sin qui raccontato dai film della serie a vincere sia proprio il secondo che ha già scritto anche i nostri patetici tentativi di sfuggire all’aguzzino finale, c’è davvero poco di che stare allegri.
Anche perché il raggiungimento della terza dimensione funzionerà pure sul piano visuale, ma resta legato ad un tratteggio di personaggi e situazioni ancora abbondantemente bidimensionale.
(Final destination 3D); Regia: David R. Ellis; sceneggiatura: Eric Bress; fotografia: Glen MacPherson; montaggio: Mark Stevens; musica: Brian Tyler; interpreti: Bobby Campo, Shantel VanSanten, Nick Zano, Haley Webb, Mykelti Williamson, Krista Allen, Andrew Fiscella, Justin Welborn; produzione: LivePlanet, New Line Cinema, Zide-Perry Productions; distribuzione: Warner Bros. Pictures Italia; origine: USA, 2009
