Follia

Ogni discorso composto sulla Follia non può non confrontarsi con il concetto di norma, di convenzione. Non si può dire, infatti, cosa sia possibile considerare folle se non si chiariscono, sin dall’inizio, i parametri e i metri di giudizio attraverso i quali interpretare tutta la realtà che ci circonda.
Ciò che viene detto sano, è essenzialmente un’astrazione che non ha alcun contatto fattivo con gli “altri” o con “noi stessi”. È come una formula del galateo che ci dice come dovremmo comportarci a tavola, quali posate usare, come tenere le mani, ma che non ha alcun legame con il nostro “io” più profondo e più vero. Tutti coloro che si uniformano alle regole non scritte di questo galateo sociale (Freud lo identificava essenzialmente con il Super Ego), che vi si adeguano, almeno a livello di facciata, possono dirsi normali, chi, invece, rifiuta queste convenzioni e si pone pirandellianamente fuori dal mondo dei “sani”, diventa folle e, in quanto tale, va isolato.
Eppure la follia esercita sempre, sul mondo borghese delle convenzioni, una fascinazione del tutto particolare. Essa è pericolosa, ma si porta dietro tutta l’attrattiva della rottura delle norme, ha la bellezza malsana ed irresistibile della trasgressione e pone l’uomo medio di fronte ad un se stesso liberato dai freni inibitori che la società ci ha imposto. Il folle è spesso una figura tragica ed esaltante perché ha il coraggio di agire seguendo pulsioni che abbiamo anche noi, ma che tendiamo a nascondere, a non mostrare agli “altri” e ad esercitare solo nel chiuso delle nostre stanze, dietro le mura rispettabili delle nostre case, con le finestre debitamente ben chiuse.
Su questa dicotomia si apre anche Follia di David Mackenzie tratto dal bel romanzo di Parick McGrath. Tutta la primissima parte della pellicola è efficacemente giocata sulla contrapposizione, all’interno di una casa di cure nella rigogliosa campagna inglese, tra un gruppo di medici ed un gruppo di malati sociopatici. I primi rappresentano, con la loro adesione (che cercano di imporre anche ai degenti dell’istituto) a convenzioni come il tè delle cinque o la cura per la toletta mattutina, il mondo delle norme comuni, i secondi, coi loro segreti anche terribili, coi loro scatti di violenza e i loro tristi silenzi improvvisi, sono espressione dell’allontanamento da quelle stesse norme.
In questo quadro si cala il personaggio di Stella, moglie inquieta di un uomo gelido ed autoritario, reclusa col marito tra le quattro mura dell’istituto insieme con altre donne che ingannano l’attesa del nulla organizzando ricevimenti che hanno le malinconie delle feste di cui racconta Edgar Allan Poe nei suoi racconti più allucinati. Tutta la prima parte con l’arrivo della coppia nell’ospedale, con la precisa descrizione della tristezza del mondo delle convenzioni, in cui i dettagli del decor sposano la logica spietata di una macchina da presa intenta a cogliere ogni minima sfumatura del malessere di tutti è da brivido tanto appare limpida ed efficace. Tra le pieghe dell’immagine, prima ancora che nella logica verbale della sceneggiatura, emerge con grande potenza il dubbio su cosa possa voler dire davvero curare la “follia” perché il mondo di gesti codificati, emotivamente spento, ma denso di una violenza brutale e contraddittoria nel quale viviamo quotidianamente, non sembra essere un’alternativa davvero allettante per chi era riuscito a starne fuori. Un tema, questo, già toccato con grande efficacia dal Peter Shaffer di Equus, gioiello teatrale (forse anche superiore ad Amadeus con cui condivide non poche tematiche di fondo a partire dal rapporto difficile tra eccezionalità e normalità) passato recentemente agli onori della cronaca per i recenti allestimenti inglesi che vi vedevano recitare, nudo, il Daniel Radcliffe di Harry Potter. Mentre, però, Shaffer affronta il tema con precisa cognizione teorica, il regista di questo film si accontenta di tenderlo come insistente sottofondo alla storia dell’attrazione che Stella prova per Edgar, un detenuto, scultore con passato di uxoricida. La passione travolgente, ambigua, fortissima che esplode tra i due diventa ben presto un faro che sfonda ogni ipocrisia e che mostra come nessuno, nell’istituto (ma per estensione in tutto il mondo), possa dirsi sano.
La regia, asciutta e piana, sposa questa visione e si affida, oltre che all’efficacissima costruzione degli spazi (dalla claustrofobia dei primi piani all’impressione d’apertura dei campi lunghi) ad un novero di attori sublimi su cui spiccano, ovviamente, Natasha Richardson e un superbo Ian McKellen perfettamente a suo agio (come già in Uomini e dei) in un ruolo a cavallo tra grandiosità e assoluta ambigua medierà borghese.
(Asylum); Regia: David Mackenzie; sceneggiatura: Patrick Marber; fotografia: Giles Nuttgens; montaggio: Colin Monie; musica: Mark Mancina; interpreti: Natasha Richardson (Stella Raphael), Ian McKellen (Dr. Peter Cleave), Hugh Bonneville (Max Raphael), Joss Ackland (Jack Straffen), Wanda Ventham (Bridie Straffen), Marton Csokas (Edgar Stark); produzione:Mace Neufeld Productions, Samson Films, Seven Arts Productions, Zephyr Films Ltd.; distribuzione: Noshame films; origine: Regno Unito, 2005; durata: 99’; webinfo: Sito ufficiale
