FOUR BROTHERS

Che bell’onor s’acquista in far vendetta (Dante Alighieri)
La neve cade greve sulle strade deserte di una livida Detroit. Magazzini industriali vuoti e abbandonati, mute ciminiere all’orizzonte, bar che straboccano umanità derelitte. L’era industriale dell’automobile è tramontata e con essa si è dispersa la sua forza motrice, quel Terzo stato figlio spurio dell’American dream fordiano che ora deve fare i conti con una nuova innocenza tradita e una identità tutta da ricostruire. In questa nuova realtà sociale, dove gli ex colleghi sindacalisti si ritrovano su versanti opposti, con famiglie da mantenere e nuovi lavori da inventare, si svolge la vicenda dei quattro fratelli multirazziali Mercer, che si ritrovano, dopo anni di lontananza, al funerale della madre, uccisa in circostanze non chiarite. Chi ha vissuto la galera, chi il disagio del ghetto, chi l’impossibilità dell’ integrazione, insomma, un bel miscuglio di odio covato che, senza desiderio di vendetta, è come un seme caduto sul granito. La vendetta è quindi il tema portante di ogni azione, dialogo e inquadratura di questa pellicola, presentata fuori concorso a Venezia, firmata da John Singleton, neo paladino della blaxploitation urbana, dal pluriacclamato Boyz’n the Hood al remake dello spiccio detective Shaft. Un vero e proprio western urbano, con l’aggiunta di un’eco post-industriale forse troppo poco sfruttata che pesca a piene mani dal plot del western crepuscolare I quattro figli di Katie Elder (H.Hathaway 1965), ma che dello stesso non mantiene la stessa linea di ambiguità. Là dove il motore trainante per John Wayne-John Elder oscillava tra una sopita sete di vendetta e il pretesto per un ‘nuovo inizio’ (o per il romantico Cable Hogue la vendetta era dilatata nel tempo), qui, nella casa degli orfani Mercer, è il sangue che si vuole far scorrere in nome di una vendetta nata come reazione e quindi legittimata da una ‘giustizia distributiva’ senza tanti compromessi, se non una blanda ricerca della verità finalizzata all’esplosione della violenza machista. Questa, perfettamente incarnata da un Marc Wahlberg che preferiamo mettere in stand by in attesa del nuovo Scorsese, e dagli altri attori, tra cui spiccano due superstar del rap. Una ricerca che si dipana con un improbabile climax verso la risoluzione del semplice giallo: uno sgarro al ras del quartiere che naturalmente ha la fine che si merita, in una scena purtroppo resa al limite del ridicolo che vorrebbe omaggiare (o tentare di rendere originale?) il Leone de Il Buono, il Brutto e il Cattivo. Ma è nella schematica divisione interna del film che si ravvedono le forti debolezze: le scene d’azione, girate con sapiente ma sonnolente esperienza e spesso salvate da musiche potenti, cozzano letteralmente con le scene casalinghe, girate con macchina a mano e caratterizzate da una fotografia calda. Il film risente di uno script con numerosi buchi (l’inettitudine grottesca della polizia) e scene involontariamente paradossali (in un ghetto nessuno lincia Wahlberg dopo che costui ha bloccato una partita di basket). Su tutto l’insopportabile presenza di un tappeto musicale pressoché continuo che come già in He got game dell’amico-nemico Spike, nega la possibilità di un uso più sapiente e più introspettivo del sonoro (in questo caso del vento), appena accennato. Passo falso e fracassone nella neve, naturalmente un super-successone negli States....
[Ottobre 2005]
Regia: John Singleton Sceneggiatura: David Elliot, Paul Lovett Fotografia: Paul Menzies jr. Montaggio: Bruce Cannon, Billy Fox Musica: David Arnold e canzoni di Marvin Gaye, Temptation Interpreti: Mark Wahlberg, Tyrese Gibson, Andre Benjamin Produzione: Paramount Pictures Distribuzione: Uip Origine: Usa (2005) Durata: 109 Web info: Sito ufficiale
