Freddy vs Jason

L’idea di mettere insieme, in un unico film, due figure come Jason Voorhees (mitico assassino con la maschera da hockey che da Venerdì 13 parte seconda in poi ha compiuto sfaceli che si sono snodati per un totale di ben nove sequel) e Freddy Kruger (creatura fatta della stessa sostanza dei sogni e partorita dal genio di Wes Craven) appare, già sulla carta, tanto balzana quanto, al fondo, intrigante. Ad essere accostate non sono soltanto due maschere che si presentano come parte integrante dell’immaginario cinematografico di tutti gli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, ma anche due mondi e due modi di concepire il cinema totalmente diverse. Se, infatti, da una parte abbiamo la più perfetta esemplificazione di una concezione di cinema assolutamente seriale fatta di efferatezze più o meno gratuite (stiamo parlando della saga inaugurata da Cunningham con Venerdì 13), dall’altra abbiamo, invece, una visione più autoriale e metareferenziale di cinema e di racconto. Se la saga di Jason limita il suo raggio d’azione tutto nella ripetizione appena variata di una serie di stereotipi desunti da altri film (la genesi di tutto risiede nell’ormai mitico Halloween carpenteriano), in quella di Freddy abbiamo, per contro, un discorso per sua natura incapace di adagirasi sulla propria banale ripetezione. Se i film ambientati a Crystal Lake avanzano per forza d’inerzia e trovano la loro ragion d’essere tutta in ragioni merceologiche e commerciali (ma al fondo rispecchiano un’esigenza molto profonda degli adoloscenti non solo americani), la serie ambientata ad Helm street, per quanto mossa da ragioni ugualmente e biecamente commerciali è costretta dalla sua stessa natura di materializzazione di un incubo a trovare, sul suo cammino, soluzioni formali e sperimentazioni visive che finiscono per nobilitare sempre l’asfittica iterazione di un modello. Beninteso: non tutti i capitoli della serie di Venerdì 13 sono solo pura routine (Jason X, ancora inedito in Italia, pare sia un’esercitazione di ibridazione di generi tra horror e fantascienza che già solo sulla carta appare affascinante) e non tutti e sette i capitoli che compongono Nightmare sono quelle gemme acuminate che si potrebbe pensare (il secondo episodio, per esempio, è un trionfo di approssimazioni e di idee assurde portate avanti da una mano incline al dilettantismo). Resta, però incontrovertibile che mentre per la prima si può contare su un solo episodio (il primo) che si possa dire ben scritto e capace di genere autentica suspense, per la seconda ci sono, invece, almeno tre episodi che sfiorano a più riprese, e con buona pace dei denigratori del genere, la dimensione del capolavoro (il primo che resta il più bello, il terzo che è il meglio caratterizzato e il settimo che appare il più consapevolmente teorico). Nell’immaginare l’opera , il regista Ronny Yu e il produttore Sean S. Cunningham concepiscono il proprio lavoro non come una prosecuzione unificata delle due saghe, ma come un riaggiornamento ibridato della funzione delle due figure nel contesto della cultura contemporanea. I due non riprendono le fila dei discorsi dove li avevamo lasciati negli ultimi episodi, ma, facendo un’ideale tabula rasa, propongono il loro film come un esercizio del tutto libero da preoccupazioni di consequenzialità narrativa. Non c’è traccia allora delle astronavi su cui avevamo visto svolazzare Jason alla fine dell’ultimo epiosdio della sua saga (recuperabile su qualche DVD d’importazione) e non c’è neanche traccia delle ambiguità di scrittura dell’ultimo bellissimo episodio della serie di Nightmare. Quello che resta è il consueto meccanismo attanziale del più classico slasher movie (mai, come in questo film, così grondante di sangue e frattaglie) con strage di ragazzi che non hanno altra funzione che essere carne da macello. A cambiare è solo il fatto che, questa volta i mostri sono due: uno che si riserva di seminare morte nel mondo della veglia e l’altro tutto chiuso nel mondo del sonno e del sogno. La mattanza è garantita su più fronti, quindi, anche se i due istrioni non tarderanno a confrontarsi per decidere chi debba coservare la supremazia sul terreno di caccia prescelto. Tutta la prima parte del film (appesantita da una troppo ammicante voce fuori campo di Freddy) è lineare come una tesina ben scritta di antropologia culturale in cui sono presentati, in bella fila, tutti gli stereotipi su cui si basavano le due saghe. Ritroviamo allora, restituite con quella sicura capacità di sintesi che deriva dal raccontare una storia già abbondantemente nota, sia l’allusività dei simboli onirici che già avevamo visto nel primo episodio diretto da Wes Craven, sia la gratuita efferatezza dei vari delitti di Jason. Le cadute di tono sono molte (la strage multipla durante il rave è contro tutte le logiche del genere e non colpisce più di tanto) e per lo più si respira l’aria stantia di un compitino fatto a casa con un certo impegno, ma senza molta fantasia. I ragazzi/vittime confermano la loro funzione di puro e semplice vuoto carnaio mentre il pubblico non può fare a meno di tifare per i due assassini, spazzini di tanta assurda idiozia concentrata in così poche persone. Il film, che si impenna stilisticamente solo all’inizio del secondo tempo quando Jason si confronta con Freddy nel territorio del sogno, resta, però, una sostanziale occasione mancata e non possiamo fare a meno di rimpiangere quello che avrebbe potuto essere un acuto divertissment di genere. Alla fine tra le ragioni della mente (esemplificate dalla figura del rimosso collettivo di Freddy) e quelle del corpo (Jason non è altro che un ritorno mitico alla consapevolizzazione della nostra natura animale e meccanica e, per questo, assolve una non piccola funzione catartica proprio presso quel pubblico adolescente cui si rivolge), sono proprio quest’ultime a trionfare. Se, infatti, a livello narrativo, lo scontro dei mostri si risolve in un pacificatorio pareggio, a livello stilistico è la logica seriale esemplificata da Venerdì 13 a trionfare su quella autoriale di Nightmare.
(Freddy vs. Jason); regia: Ronny Yu; sceneggiatura: David S. Goyer, Damian Shannon, Mark J. Swift; montaggio: Rick Shaine; musica: Graeme Revell; interpreti: Robert Englund, Ken Kirzinger, Kelly Rowland, Brendan Fletcher, James Callahan, Jason Ritter, Monica Keena; produzione: Sean S. Cunningham; distribuzione: Mediafilm
[ottobre 2003]
