FREE ZONE

Il cinema di Amos Gitai si è sempre contraddistinto per alcune scelte registiche particolarmente ispirate: celebri e giustamente celebrati soprattutto i potenti incipit delle sue pellicole. Stavolta però il maestro israeliano ha perfino superato se stesso: in quei nove minuti iniziali di pianto dirotto della Portman (bravissima) scanditi dalla ciclica ballata tradizionale, c’è sintetizzata tutta la disperazione e l’orrore di chi si trova faccia a faccia con gli effetti devastanti della guerra. E’ una partenza folgorante, estremamente vivida, dalla quale si fa fatica a staccarsi (anche perché poi forse non tutto ciò che segue è all’altezza, specialmente verso la parte finale). L’inquadratura del profilo della ragazza che singhiozza sconvolta contro il Muro del Pianto rimanda a quella identica ed ugualmente protratta nel tempo, contenuta in Kippur: lì era un soldato israeliano a guardare il mondo esterno nel chiuso di un elicottero (invece che dell’automobile, come avviene in quest’ultimo film). E tuttavia il soldato sembrava totalmente assente, ormai priv(at)o della capacità di provare emozioni: sono solo le donne a versare lacrime amare in quelle zone dimenticate. Nel magnifico Kadosh c’era un’immagine brevissima eppure notevole, ancora una volta per l’invidiabile capacità di sintesi dimostrata dall’autore: la protagonista Rivka si recava a pregare al Muro del Pianto, mentre accanto a lei l’inquadratura riprendeva solo altre donne.
Gitai tuttavia in Free Zone va oltre: a quel piano sequenza introduttivo di 9’, ne attacca immediatamente un altro, altrettanto duro da “digerire”, sul tentativo da parte della giovane americana e della sua autista israeliana di passare attraverso un posto di blocco. Con Kippur, d’altronde, il regista israeliano aveva già scelto di mostrarci la stessa guerra in piano sequenza, per restituire il senso di tragica continuità in una situazione di sempiterno stallo. “Domani sarà come oggi. Solo un altro giorno” diceva senz’ombra di illusione il medico in quel film.
Le immagini presenti nei film di quest’autore si seguono col fiato sospeso, poiché quello che si svolge sullo schermo è sempre totalmente avvincente, anche quando ci troviamo di fronte ad una “semplice” scena di dialogo. Spesso i racconti dei personaggi riguardano il loro passato e rappresentano l’unico modo che hanno per rendere conto di ciò che sono, o meglio, sono diventati. In Free Zone, Gitai si appropria anche del vissuto personale di Natalie Portman, che scopre di non essere ebrea dal momento che sua madre non lo era: ed è esattamente questo che fa dire il regista/sceneggiatore a Rebecca, il personaggio interpretato dalla giovane diva americana nel film.
Il presente dunque appare sempre come una diretta conseguenza, una vera e propria emanazione del passato. Ciò è ancor più vero per questo film, in cui Gitai ha la felice intuizione di affidare alle sovraimpressioni il compito di spiegare in una manciata di minuti, qual è stato il percorso dei suoi personaggi fin lì.
Il film, girato in pellicola, presenta tuttavia l’estetica del digitale, unendo dunque la tradizione alla modernità, la classicità con la sperimentazione, non solo sul piano narrativo, ma anche su quello della tecnica.
L’autore israeliano si sforza da sempre di favorire e proporre il confronto con l’altro e lo scambio di idee: un’opera di certo “costruttiva”, quella del cineasta-architetto, che offre un cinema di dialogo quasi sempre declinato al femminile (significativo il fatto che scriva spesso le sue sceneggiature a quattro mani con una donna). Gli uomini sono nella maggior parte dei casi dipinti come bravi soldatini, istruiti a dovere sul modo in cui agire, su come pregare, cosa pensare: perfetti continuatori di tradizioni quantomai retrograde, che il regista cerca di smascherare nella ricerca di questa fantomatica “zona franca” in cui tutti lavorano faticosamente per conquistarsi un’estistenza dignitosa.
Spesso relegate nei suoi film precedenti al rango di custodi del focolare domestico, fedeli compagne di uomini anche violenti, sagge guide dei figli - o come nell’ultimo, nerissimo, Terra Promessa ormai ridotte in schiavitù come puri oggetti di piacere, qui le tre splendide donne al centro della Storia (una menzione speciale spetta di certo ad Hana Laszlo, premiata come Miglior Attrice all’ultimo Festival di Cannes) si prendono una bella rivincita ed escono vincenti dal ritratto a tutto tondo qui tracciato da Gitai, grazie a quella muta solidarietà che più di una volta sono disposte a concedere anche alla “nemica designata”.
In fondo le guerre, come tutto il resto, le decidono gli uomini e alle donne non rimane che tentare di sopravvivere alle conseguenze delle loro azioni: un dato esemplificato lucidamente da Free Zone, in cui ciascuna delle tre protagoniste si ritrova a doversi mettere in viaggio per porre rimedio alle manchevolezze dei rispettivi compagni.
(id.) Regia: Amos Gitai; soggetto e sceneggiatura: Amos Gitai, Marie José Sanselme; fotografia: Laurent Brunet; montaggio: Isabelle Ingold, Yann Dedet; musiche: Alex Claude; scenografia: Miguel Markin; costumi: Aline Stern; interpreti: Rebecca (Natalie Portman), Hana Laszlo (Hanna), Leila (Hiam Abbass), Breitberg (Carmen Maura); produzione: Nicolas Blanc, Michael Tapuach, Laurent Truchot; distribuzione: Istituto Luce; origine: Francia/Giordania/Israele; durata: 90’
