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From The Sky Down

Pubblicato il 31 ottobre 2011 da Luca Lardieri

VOTO:

From The Sky Down

Nessun Paese riserva sorprese in campo cinematografico come gli Stati Uniti d’America. Davis Guggenheim ne è senza alcun dubbio la conferma. Regista formatosi principalmente in televisione come "director" di serial quali Party of Five, N.Y.P.D, E.R. e Alias, lontano dal piccolo schermo cambia totalmente registro stilistico e tematico cimentandosi con il cinema del reale. Documentari molto diversi tra loro che fanno del quarontottenne regista del Missouri uno degli esponenti più importanti del genere che nel 2006 lo ha condotto alla vittoria di un Oscar con Una scomoda verità. Il film che ha come protagonista Al Gore e che parla del problema del surriscaldamento globale tanto caro all’ex vicepresidente degli USA, ha girato i festival di tutto il mondo (compreso Cinemambiente di Torino 2007) riscuotendo un grande successo di pubblico e critica. La cosa che più colpisce di Guggenheim è la sua capacità di modificare la propria idea di regia a seconda della tematica di cui si occupa. Dote questa difficilmente riscontrabile nella maggior parte dei registi, soprattutto tra quelli che si occupano principalmente del documentario. From The Sky Down ne è la conferma.
Un documentario quasi classico, pulito, con interviste e voce narrante ma che ha il pregio di far affiorare la tematica di cui tratta a poco a poco senza mai svelare troppo, quasi fosse costruito attraverso l’utilizzo di una sceneggiatura di un film di fiction. Materiali di repertorio utilizzati come fossero Flashback, tourning point quasi matematici che tengono vigile l’attenzione dello spettatore e materiale fotografico mai utilizzato come riempitivo semmai come un album di ricordi che giunge in ausilio a ciò che manca alla macchina da presa o alle varie videocamere che hanno seguito Bono e gli U2 nel corso dei loro trent’anni di carriera. Infatti il documentario parla degli U2 e del periodo che tra The Joshua Tree e Achtung Baby (due tra gli album più famosi e amati della band di Dublino) li ha visti protagonisti di una profonda crisi artistica che stava quasi per distruggerli e che invece, grazie alla pazienza e al sentimento che li spingeva a vedere il gruppo come un’unica identità e non come l’insieme di quattro singoli individui, li ha portati a diventare una delle più grandi e longeve Rock Band del pianeta. Periodo che non a caso li portò a comporre uno dei loro più grandi successi, One. Il documentario si avvale delle testimonianze dirette dei componenti della band, di Brian Eno e di quasi tutti i collaboratori che hanno ruotato intorno all’universo U2 in quel periodo. Le splendide foto di Anton Corbijn, alcune sequenze tratte da U2: Rattle and Hum e la colonna sonora che mischia i successi della band con altri grandi brani dei gruppi in voga negli ultimi quarant’anni fanno il resto.
Un prodotto sicuramente piacevole, curato e ben confezionato che renderà felici i molti fan della band irlandese, ma che allo sguardo critico di uno spettatore poco coinvolto emotivamente, appare come l’ennesimo grande spot pubblicitario che tesse le lodi di un gruppo fuori da ogni trasgressione e stereotipo, facendo apparire Bono e compagni piuttosto megalomani e autocelebrativi a dispetto di ciò che viene asserito per quasi tutta la durata del film.
Alla fine dei novanta minuti della proiezione una sola domanda resta irrisolta: è nato prima il Bono di Roma o il Jovanotti di Dublino?


CAST & CREDITS

(id.); Regia: Davis Guggenheim; fotografia: Erich Roland; montaggio: Geraud Brisson, Jay Cassidy; musiche: U2 e Michael Brook; origine: USA, 2011; durata: 90’.


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