Funeral party

Funeral party, ennesimo titolo italiano che flirta con gli anglicismi per attirare una certa fascia di pubblico, non rende giustizia al più sobrio Death at a funeral che campeggia sulle locandine dei paesi di lingua inglese.
Non una festa, quindi, non l’ossimoro apparente che lega l’evento luttuoso ad una di quelle gioiose goliardate adolescenziali che siamo abituati ad associare alla parola party (colpa di molto cinema americano), ma la Morte ad un funerale: un’apparente ovvietà.
Resta poi il fatto che, mentre la pellicola scorre sotto i nostri occhi intorpiditi dall’abitudine ci si accorge che di morte, o di senso della morte, ce n’è ben davvero poca in questo funerale. O meglio essa è presente pervasivamente, ma in maniera sotterranea, indefinibile. Respira nei gesti, si infiltra negli interstizi delle conversazioni lasciati vuoti tra una parola e l’altra, ma non si mette in opposizione all’esistenza dei variegati personaggi che compongono l’universo improbabile eppure credibile del film. Non è un’improvvisa scoperta che irrompe nelle vite delle persone che l’avevano fino a quel punto ignorata, non è l’illuminazione esistenziale che impone l’evidenza che tutti dobbiamo, in fondo morire anche se tendiamo a crederci (chissà perché) immortali, ma una presenza quotidiana, quasi scontata, sicuramente adulta. E sarà anche per questo che non ci sono bambini in tutto il film, se non in potenza, come nella figura della donna che si dichiara i cinta proprio durante il funerale quasi a rimarcare l’esigenza di una ciclicità che va comunque rispettata: per ognuno che se ne va deve esserci sempre qualcun’altro che ne prenda il posto. La morte come accidente naturale, quindi, privata di ogni aura spaventosa, di ogni timore bergmaniano e ricondotta nella sua dimensione quieta, semplice. Morte ad un funerale, appunto. Perché se è vero che, per tutto il film, rimane ingombrante, al centro della sala, la bara del padre ad ammonire e a ricordare a tutti che il destino che ci aspetta e che ci rende tutti uguali è quello, non da meno resta la consapevolezza che la morte è anche quella che da sapore e significato alla vita. Del resto i funerali sono cose per i vivi. I morti si limitano a stare al centro della situazione, senza pretendere nulla, con la loro presenza muta che ci fa da specchio e ci aiuta a capire un po’ meglio i perché del nostro esistere.
Ed è molto vivo, in fondo, il funerale raccontato nel film. È un evento di piccole scoperte, appena virato sui toni surreali che gli derivano da situazioni ai limiti del paradosso (l’uomo che assume una droga pensando sia valium, la scoperte delle tendenze sessuali insospettabili del defunto ecc.). È un momento appena appena catartico (ma senza esagerare) nel quale ognuno dei figli del defunto è chiamato a scoprire la propria posizione anche se tale scoperta si muove sui terreni del già visto e del “prevedibile” (l’aspirante scrittore privo di talento che trova l’ispirazione per un discorso sui valori della vita e dell’amore per il padre, il fratello scrittore di fama che deve ammettere l’illusorietà del proprio stesso successo e così via).
Nella ridda mai troppo forsennata di situazioni (il film è più legato alla tradizione della farsa che a quello del comico puro) a trionfare sono i valori piani di un’esistenza anche troppo borghese, senza troppi slanci e con tante piccole soddisfazioni che devono essere il sale a condimento di vite così mediocri che non riescono neanche ad accorgersi davvero di essere tali. E, forse, sta proprio qui la zampata migliore e più acida che il film, piacevole, ma mai un capolavoro, riesce a dare.
Il grottesco non prende mai troppo il sopravvento. Neanche in momenti deputati come quello in cui, durante la funzione, la bara comincia a traballare, tempestata da pungi che arrivano dritti dall’interno e ne esce fuori un nano, legato ed imbavagliato.
Anche i riferimenti a tutto ciò che è deperibile, al basso corporeo, all’escremento, a ciò che di morto esce naturalmente da ciò che invece è vivo, vivono tutti nello spazio piano di una naturalità piana. Il regista evita l’aura scandalistica alla American pie che ci parla prima di tutto di come questi elementi siano rimossi dalla società contemporanea nella quale invece viviamo. E diventa leggera la scena del povero vecchio paralitico portato di corsa al bagno perché del tutto incapace a trattenersi.
In un mondo, quindi, dove il cibo è diventato elemento di commercio, dove il sesso è relegato alla funzione di immagine televisiva sempre più privata della fisicità del sudore e degli odori e dove la morte è diventato il supremo rimosso di cui è impossibile parlare, un film come Death at a funeral appare decisamente un discreto antidoto. Non cura il male (avrebbe dovuto osare molto, ma molto di più), ma se non altro fa ridere un poco.
(Death at a funeral); Regia: Frank Oz; sceneggiatura: Dean Craig; fotografia: Oliver Curtis; montaggio: Beverley Mills; musica: Murray Gold; interpreti: Matthew MacFadyen (Daniel), Rupert Graves (Robert), Keeley Hawes (Jane), Ewen Bremner (Justin), Daisy Donovan (Martha), Alan Tudyk (Simon), Jane Asher (Sandra), Kris Marshall (Troy); produzione:Sidney Kimmel Entertainment, Parabolic Pictures Inc., Stable Way Entertainment, VIP 1 Medienfonds, VIP 2 Medienfonds, Target Media Entertainment; distribuzione: Mikado; origine: Germania/Gran Bretagna/Usa, 2007; durata: 90’
