Ghost son

Stacey e Mark si amano alla follia. Lei ha lasciato la sua carriera di ricercatrice universitaria per trasferirsi nella di lui casa africana adiacente ad un grosso allevamento di cavalli (se ne vedono si e no tre per tutto quanto il film). Lui ridipinge per lei le pareti di una stanza destinata a studio.
Fuori della magione (giustamente vittoriana) il paradiso di un’Africa da cartolina, con le strade sabbiose, la rada vegetazione, le gazzelle o le zebre in corsa e un non meglio precisato villaggio di casette coloniali con la strada del mercato in mezzo. Per spostarsi da un luogo all’altro un veicolo vale l’altro: chi, come Elizabeth, amica e collega di Stacey, preferisce il biplano per lunghi tragitti (all’inizio e alla fine della pellicola), chi come Mark si affida alla jeep. Alle donne del luogo è permesso solo andare a piedi (Leleti, la stregona del villaggio, che si trascina il suo grosso tocco di legno destinato a diventare la nuova scultura del marito Bongani) o al più in bicicletta come fanno la stessa Stacey e la domestica fanciulla Thandi che vive sola a casa, col fantasma della madre.
Si perché in Africa, è bene saperlo sin dall’inizio, i fantasmi non lasciano la terra in cerca di felicità nel buon vecchio aldilà, ma se ne restano incatenati al suolo, magari nella prigione di quella vecchia radice d’albero presso cui è avvenuto il trapasso sfortunato. Non c’è da sperare, insomma, nella cara, vecchia miglior vita dell’adagio perché terreno ed ultraterreno sono ad un tiro di schioppo l’uno dall’altro, si confondono e si fanno indistinti.
Sicché quando Mark muore per un banale incidente con la sua jeep, Stacey, invece di lasciarlo andare, lo trattiene a sé con la forza dell’amore e un pizzico di forse inconsapevole magia nera.
Il fantasma, che come da copione popola i sogni della vedova, cresce man mano che i giorni si macerano nel lutto, fino a farsi forte abbastanza da riuscire, raggiunta una raccapricciante consistenza fisica, a stuprare la moglie lasciandola gravida di un bambino tanto satanico quanto spaventoso.
L’istinto materno subentrato al lutto, fuga, però, i propositi suicidi della donna e il fantasma di Mark, sentendosi tradito, rinnova i suoi attacchi paurosi nei quali a soccombere è solo la povera Thandi.
L’abbiamo raccontata volutamente male la storia di Ghost son, l’ultima fatica di Lamberto Bava, figlio del mai troppo compianto Mario. E non perché non desti simpatia il suo ritorno al cinema dopo anni di silenzio rotti appena dal maldestro The torturer uscito direttamente nell’home video. Ma perché il film, nel suo essere un omaggio incrociato a Ghost (un fantasma che resta sulla terra per amore della donna amata) e a Baby Killer di Cohen, è uno di quei classici prodotti che sembrano uscire fuori tempo massimo.
Il regista, infatti, nel comporre da par suo una pellicola tecnicamente piuttosto curata (grazie anche all’intervento della coproduzione inglese), tira fuori dal cappello un tono nostalgico che non sarebbe in sé un male se non fosse anche segno di uno smaccato provincialismo di fondo. Sicché si ha l’impressione, mentre scorre il film, che il buon Lamberto non voglia mai scendere a patti con quell’evoluzione del linguaggio (e non solo del genere) che comunque c’è stata negli ultimi venti anni.
Ghost son vede la luce adesso, ma sembra un prodotto degli anni ’80. Rispetto ai film d’un tempo è nobilitato, innegabilmente, da una regia attenta (sono efficaci i carrelli che uniscono in una stessa inquadratura passato e presente, fantasmi e vivi), ma non appare per questo meno datato visto che i suoi riferimenti più ovvi arrivano, cronologicamente sino al 1987 del già citato film di Cohen. Giammai oltre!
Ma il film, alla fine, fa male per motivi ben più pregnanti: compone una storia di mal d’Africa che ha l’ambiguità vittoriana di una storia di fantasmi, ma che dell’Africa non si porta dietro niente se non la generica ambientazione (il film funzionerebbe ovunque allo stesso modo); sfiora temi portanti come il dolore e il senso di colpa che consegue necessariamente al sopravvivere alla persona amata, ma li riduce a meri accidenti narrativi; e, cosa peggiore, mette in campo spettri che si rivelano alla resa dei conti, totalmente idioti visto che basta dirgli che non li si ama più perché facciano marcia indietro e se ne tornino, buoni buoni, nell’Ade.
Dai fantasmi, siano essi reali o frutto dell’inconscio, sarebbe lecito aspettarsi qualcosa di più!
(Ghost son); Regia: Lamberto Bava; sceneggiatura: Lamberto Bava, Silvia Ranfagni; fotografia: Giovanni Canevari; montaggio: Raimondo Aiello; musica: Paolo Vivaldi; interpreti: Laura Harring (Stacey), Pete Postlethwaite (Doc), John Hannah (Mark), Coralina Castaldi-Tassoni (Elizabeth); produzione: C.R.C., Star Edizioni, Camarote Films; distribuzione: Moviemax; origine: Gran Bretagna, Italia, Spagna, Sud Africa, 2006; durata: 96’; webinfo: Sito ufficiale e Sito italiano
